Capitolo 2 parte 2
Adunque, dalla donazione di Adelaide e sua conferma, e dalle locazioni dei beni di S. Siro e donazioni di essi, al cenobio di S. Stefano,
appare che il fondo Porzano, situato in Villaregia, della quale era, come meglio vedremo, una parte soltanto, apparteneva alla donatrice,
sino al cominciamento dei beni di S. Siro, situati nella località e regione allora, ed ancor oggidì, detta S. Siro, e ciò significa che
le possessioni, del monastero, si estendevano assai più lungi, da quel famoso fossato del Pertuso, che, secondo Taggia, sarebbe la colonna
d'Ercole, della parrocchia di Riva.
Ecco perché, molto mellifluamente, si vorrebbe collocare la terra di S. Siro, a levante del fossato di Pompeiana!!
Ma il S. P. Q. T. ben merita l'onore di prove ancor maggiori.
Uno degli elementi e criteri più importanti, per riconoscere le antiche circoscrizioni dei popoli, è fornito dalle diocesi e pievi, poiché,
come dicemmo più sopra, esse seguirono, esattamente, le antiche divisioni territoriali. La prima chiesa battesimale fu nel centro della
diocesi, cioè la cattedrale, successivamente, estesosi il cristianesimo nei paghi, furono istituite altre chiese battesimali, nei
luoghi più distanti dal capoluogo della diocesi, e queste furono le pievi o chiese plebane, alle quali era preposto l'arciprete,
che avea sotto la sua dipendenza le altre chiese minori, coi loro rectores o ministri. L'ultima pieve, sul confine occidentale della
diocesi di Albenea, fu la chiesa di S. Maurizio di Villaregia, l'antica parrocchia di Riva Ligure, tuttora esistente e monumento
venerando di singolare antichità. Questa chiesa plebana fu consacrata, dal vescovo di Albenga, Simone, nell'anno 1242, addì nove del mese di novembre.br />
La memoria, in difesa di Taggta, ricorda l'atto del 1206, col quale, si dice, Simone Malocello, canonico genovese e delegato
apostolico, liberò la chiesa di S. Maurizio dall'obbligo di pagare il quarto della decima, al prevosto di Lingueglia. L'atto è
una sentenza, che rese giustizia, non una concessione, ed, anzi, la chiesa di Lingueglia, non fu mai pieve, almeno, come la si
intendeva anticamente. Il suo parroco, non era decorato del titolo di arciprete, ma di prevosto ed il Giardinello aggiunge che tale
chiesa non fu mai consacrata.
I benefizi arrecati, dai monaci, alle popolazioni, l'importanza dei loro stabilimenti ed i mezzi, di cui essi potevano disporre,
spinsero i vescovi di Albenga a largheggiare, col monastero di S. Stefano.
In Villaregia, era pure la chiesa di S. Stefano; questa dipendeva, direttamente, dal vescovo, mentre che le chiese plebane, e
perciò S. Maurizio, come vedremo, dipendevano dal capitolo della cattedrale, perché di questa erano quasi rappresentanti e filiali,
essendo chiese battesimali.
Nel marzo dell'anno 1142, il vescovo di Albenga Ottone, fece una cospicua donazione al monastero di S. Stefano.
È questo un atto di capitale importanza, poiché contiene gli esatti confini di tutta Villaregia, qual'era allora.
Donò, anzitutto, Ottone la chiesa di S. Stefano in San Remo: « basilicam sancti Stephani que est estructam subtus castri
sancti romuli » e, quindi, la sua chiesa di S. Stefano di Villaregia, con tutte le terre, campi, vigne e colonie e con tutte le decime,
al vescovo spettanti iu Villaregia, della quale i confini sono così precisati: « a fluvio armedano »
(cioè ad occidente), ecco l'antico confine della marca di Albenga, usque in capite de pino (cioè ad oriente), oggidì
costa dei pini, presso Civezza, al quale, più tardi, si sostituì l'aqua Civetie, che poco ne dista et a iugis montium usque
in mare (1). Ecco quale era l'estensione di Villaregia; ma Arma e Bussana, cresciute e fattesi
autonome, presto se ne staccarono e finirono
col piegare il capo sotto la dominazione dei conti di Ventimigiia, Villaregia rimase, perciò, ristretta, da questo lato, alia sponda sinistra
del fiume Taggia.
Ciò è pur confermato da autori gravissimi, citeremo, fra gli altri, il Lancellotto, già ricordato, il Semeria, (Vol. II. pag. 469) che
così ne parla: « Quel territorio che stendesi sul litorale della riviera di ponente, tra la foce del fiume Taggia ed il distretto della
parrocchia di S. Stefano, chiamavasi Villaregia e Gerolamo Rossi (Storia di S. Remo pag. 75) il quale afferma che essa era compresa tra la
foce dell'Argentina e il distretto di S. Stefano.
Ma, anche al di là della Taggia, volgevano cupido lo sguardo i potenti conti di Ventimiglia. Già vasti possedimenti essi avevano nella parte
occidentale della diocesi di Albenga, sino dal secolo XI e, nel 24 febbraio 1177, Ottone fece permuta con Laugerio, abate di Lerino, dal
quale acquistò quanto il monastero possedeva in marca albingane ab aqua armerie usque ad Pream. Una parte di tali beni,
specialmente i diritti sul Porciano, Terzorio e Cipressa, furono acquistati da Raimondo, abate di S. Stefano, nei primi anni del
secolo XIII, mediante cessione a lui fattane, da Oberto, conte di Ventimiglia.
Nell'anno 1217, con atto stipulato in S. Remo, il 25 gennaio, Enrico, conte di Ventimiglia, in compenso della cessione di Pigna e
Roccabruna, acquistò quanto già i suoi consanguinei, avevano nel Maro, in Aurigo ed in Oneglia ed in tutto il territorio, da monte Arosio
usque ad aquam tabie (2). Ecco dimostrato che questo territorio non apparteneva a Taggia,
allora soggetta agli aleramici marchesi di Clavesana, i quali, soltanto, nell'anno 1228, la vendettero ai genovesi.
Gioverà ricordare che Bonifacio, marchese del Vasto, morì dopo il 1130. I suoi figli se ne divisero il dominio il 22 dicembre dell'anno
1142, e, morti Ugone, Bonifacio ed Odone senza prole, i fratelli ereditarono la porzione, ad essi assegnata. Anselmo ebbe ii marchesato
di Ceva e di Clavesana; dopo di lui, i suoi figli Bonifacio e Guglielmo si partirono il retaggio paterno, Guglielmo prese il marchesato
di Ceva, Bonifacio quello di Clavesana, signoreggiando, così, la valle dell'Aroccia, Andora, Diano, Porto Maurizio e Taggia.
Nell'anno 1205, il capitolo cattedrale di Albenga, col concorso ed approvazione del vescovo, cedette al monastero di S. Stefano, per
lire cento di Genova, la chiesa plebana di S. Maurizio di Villaregia (3), con tutti i suoi diritti
e pertinenze e confini, già noti, e la chiesa di S. Maria di Pompeiana.
Or Villaregia, salva l'antica maggior latitudine di confini (poi ristrettisi al territorio, posto fra il fiume Taggia e l'acqua di
Civezza), entro la cerchia della quale, era il fondo Porziano ed il planum fucis, era appunto Riva Ligure, olim Ripa Tabiae.
Il chiarissimo collega prof. Rossi, nella sua relazione, ha ricordato la locazione del 1028, di cui già tenemmo discorso, la quale a tergo,
ha per titolo: « de Porciana Ripie prope planum fucis ».
Adunque i beni di S. Siro, oggetto di quel contratto, situati nella regione di S. Siro, erano nel territorio di Riva, nome già esistente
nel 1028.
A corroborare tale rilievo, dell'onorando capo del collegio arbitrale, noi indicheremo vari altri documenti, col loro titolo a tergo, in
alcuni sincrono, in altri, quasi coevo al documento, avvertendo, che essi trovansi all'Archivio di Stato, in Genova, nelle carte dell'abbazia di S. Stefano.
1. anno 1049. Donazione di Adelaide - a tergo « de rebus ripe tabie »
2. anno 1169. Conferma di tal donazione - « de rebus ripe tabie »
3. anno 1225. 7 aprile - Oberto, vescovo di Albenga, ratifica la cessione della chiesa di S. Maurizio di Villaregia, fatta, nel 1205,
dal suo capitolo, al monastero di S. Stefano.
4. anno 1225. 21 aprile - Quitanza di lire 100, di Genova, rilasciata dal capitolo, al monastero di S. Stefano, prezzo della cessione
della chiesa plebana di S. Maurizio di Villaregia e di S. Maria di Pompeiana.
A tergo di questi documenti, si legge: « carte possessionis empte pro ecclesiis de ripa tabie de pecunia, monasterii ».
5. anno 1286. 18 febbraio - Procura dei consoli di Villaregia in Raimondo Volpe e Ginata Bonico, per trattare con l'abate di S. Stefano,
alcune pratiche riguardanti detta Villaregia « de ripa tabie ».
E, se ve ne fosse mestieri, tali prove potrebbero moltiplicarsi.
Adunque Villaregia, nei suoi più ristretti confini, dall'acqua di Civezza al fiume Taggia, rispondeva all'antico territorio della
parrocchia di Riva, prima che San Stefano se ne separasse.
Per effetto della dominazione monacale, sorse pare il luogo di S. Stefano, il quale, pur essendo compreso, nel distretto di
Villaregia, costituiva già verso la fine del secolo XIII, una villa, che se, ecclesiasticamente, rimase soggetta a S. Maurizio,
formò, nel resto, un centro suo proprio. Ed ecco, negli atti di dazione in pegno e di vendita, del 1335, dal monastero a Lamba Doria,
e dagli eredi di questi, a Genova, dopo nominato il territorium sancti stephani, specificarsi distintamente Villaregia et
villa sancti stephani (4).
E non sarà vano ricordare che Villaregia aveva, come Arma, il suo podestà, tanto è vero, che i monaci, in occasione della suddetta dazione
in pegno ed immissione in possesso, costituirono, in podestà, lo stesso Lamba Doria.br />
Ed, ora, una parola, a riguardo dell'atto, che l'avvocato Fossati qualifica di vendita, mentre non è che una cessione di diritti, che
Nicolò Doria, figlio ed erede di Lamba, fece al doge di Genova, Giovanni di Valente. Prima, però, di tale esame, occorre
ricordare gli atti precedenti, almeno i più importanti. In seguito ai mutui, fatti, da Lamba Doria, al monastero, per mezzo del
procuratore di esso, Antonio di Castello, il Lamba fu immesso in possesso, del territorio di S. Stefano.
Il 13 settembre 1335, l'abate Guglielmo ed i monaci ratificarono l'immissione in possesso (5) loci
et tocius territorii sancti stephani... cui territorio coheret in universo in parte territorium tabie... territorium castellarii et
territorium linguilie. Nacquero, però, controversie fra i monaci e Lamba Doria e, dopo la morte di questi, col suo erede e figlio
Nicolò. Tale stato di dissidio durò per circa venti anni. Devesi, però, notare che i monaci conservarono la giurisdizione ecclesiastica,
troviamo, infatti, che, nell'anno 1342, addì 28 marzo, Emanuele Zerbino, canonico di Porto Maurizio, appella alla S. Sede, contro la
collazione della chiesa di S. Maurizio, nel prete Giovanni Manello, fatta dall'abate Guglielmo (6).
Non è dato conoscere tutte le fasi
del dissidio, accesosi fra il monastero ed i Doria. vi furono liti, transazioni, compromessi, sentenze arbitrali, finché nel 28 giugno
1353, Nicolò Doria, fece cessione (non vendita di S. Stefano) al doge di Genova, Giovanni di Valente, dei diritti che, ad esso Nicolò,
quale erede del padre, competevano contro l'abate e monastero di S. Stefano e cioè: « omnia iura, rationes et actiones quas eidem
nicolao ereditario nomine dicti quondam domini lambe competunt adversum dictum dominum abbatem ecc. » entro i seguenti confini:
ab oriente aqua civecie (l'antico capite de pino) ab occidente fossatus sancti mauricii qui antiquitus dicebatur fossatus de
pertusio, ab inferiori parte litus maris ab alia parte castrum linguilie in parte et in parte alpes-bocali et in alia castrum
cartellarii (7). Questo documento prova che tale cessione, non comprendeva il territorio
attuale di Riva Ligure, poiché, ad occidente, ha per confine il fossato di S. Maurizio (oggidì più noto col nome di S. Caterina), che è,
invece, il confine orientale di tale territorio. Tali risultanze sono contrarie agli interessi e pretese di Taggia, per cui l'avvocato
Fossati insorge e taccia, anzitutto, il documento di errore e di equivoco, poiché il fossato di S. Maurizio, secondo lui, mai fu detto
fossato Pertuso. Rispondiamo essere logica presunzione che conoscessero i luoghi, ed i loro nomi, assai meglio di noi, nel secolo XX,
quelli che vivevano nel secolo XIV, e, d'altronde, la frase « qui antiquitus dicebatur fossatus de pertusio » è troppo
caratteristica, per ammettere il supposto errore. Ma se errore vi fu, in che consiste? Certo in tale affermazione, resta quindi sempre il confine
occidentale nel fossato di S. Maurizio, nome, certamente, non errato.
Tale documento potrebbe concorrere a fornire materiali, ad un opera, che trattasse della fortuna dei nomi dei luoghi, poiché si vede
chiaramente che, più tardi, Dio solo sa il come e il quando, fossato Pertuso, servì, solo, ad indicare altro rivo, più ad occidente di
quello di S. Maurizio.
Ma il collega Fossati, valente quale egli è, non si arrende tanto facilmente ed obbietta, che la prima lezione del documento, porta,
invece del fossato di S. Maurizio, l'espressione di fossatus de rophana, poi cancellata. Ciò è vero, io stesso riscontrai il
documento (8) e riconobbi che il Fossati ha ragione, ma tale circostanza pone il suggello alla disfatta di Taggia. Per il collega
Fossati, fossatus de rophana, è nome immaginario, mai esistito. Quale errore! Esso era altro dei nomi del fossato di S.
Maurizio. Se il Fossati avesse letto la ricordata approvazione e conferma della donazione di Adelaide, fatta, nel 1169, dai di
lei pronipoti, nel suo testo originale, quale è, per esteso, trascritto, nella sullodata opera del Desimoni, avrebbe visto
precisamente il fossatus de rophana, come altro dei confini e rispondente al fossato di S. Maurizio.
Siccome, però, tale nome era, forse, poco noto, così si preferì specificarlo, con uno più comune, cioè fossato di S. Maurizio;
ma, intanto, anche tale fatto dimostra, con palmare evidenza, che il confine occidentale, a cui venne limitata tale cessione, era,
appunto, il rivo di S. Maurizio.
[...] Qui il documento in nostro possesso è privo di 8 pagine [...]
Secondo il Giardinello, il confine occidentale della parrocchia di Riva, cioè verso Taggia, è la strada che divide Taggia
dal Castellaro. Dunque niente fossato del Pertuso o delle Conche. Questa strada è quella detta dei Gattini, di cui parla l'illustre capo del collegio
arbitrale, comm. Gerolamo Rossi, nella sua elaborata e succosa relazione. Essa si spinge in alto verso Castellaro, si congiunge all'altra via
che conduce a detto paese non molto lungi da Rocca Crovara e presso la località detta,
oggidì Cà di Berta. Tale via fu la linea di separazione tra la parrocchia di Taggia e quella di Castellaro, come appare, anche, da
antiche relazioni dei confini.
Ma la relazione Fossati tenta spiegare altrimenti la descrizione del Giardinello. Secondo l'arbitro di Taggia, tale via è quella, posta
ad occidente di Riva, che conduce al Castellaro e siccome, nel 1624, in cui il Giardinello, fu scritto, Taggia avea sotto il suo dominio,
Riva, così deve intendersi questa la via, che divide Taggia da Castellaro.
Spiegazione più meschina ed infelice non poteva darsi.
Il Giardinello dà i confini della parrocchia di Riva, non indicando i punti cardinali, ma colla parola verso... ogni singola parrocchia
attigua. Verso... S. Stefano... verso Pompeiana.., e verso Taggia la strada ecc. né il Giardinello si preoccupa della giurisdizione civile,
sibbene di quella ecclesiastica. La parrocchia di Riva era indipendente, da quella di Taggia, e ben distinta, quindi le parole del
Giardinello « la strada che divide Taggia dal Castellaro » si riferiscono a Taggia, parrocchia, ed a Castellaro
parrocchia. Ma il Fossati mette a confronto tale descrizione di confini, con quanto si legge nell'inventario Maglio del 1599, di cui a
lungo abbiamo parlato, là ove è detto che il confine « va montando per il cammino che parte detti territori di Taggia e Castellaro sino
alla Costa delli Paneri ecc. ». Per comprendere la nostra risposta, che ci pare chiara, limpida ed esauriente, è necessario aver
sottocchi una carta del territorio, in esame. Ed allora si vedrà che detto cammino, in quel punto, divisorio del territorio di
Taggia, come è detto nell'inventario Maglio, non può essere la strada, di cui nel Giardinello, per la ragione, già espressa dallo
stesso Fossati, nella sua relazione, ove dice: «tale strada, giova ripeterlo, divideva allora il territorio di Taggia da quello
del Castellaro, perché il territorio di Taggia comprendeva Riva, ed entrambi comprendevano porzioni dell'odierna Pompeiana ». Ma, ripetiamolo,
qui non si tratta di giurisdizione civile, ma ecclesiastica ed, ecclesiasticamente, Taggia non comprendeva Riva, parrocchia a sé, come
parrocchia a sé era Pompeiana, quindi il confine tra la parrocchia di Riva e quella di Taggia si riferisce ad altra strada, cioè a quella
dei Gattini, già menzionata. Ed è poi ovvio il riflesso che Taggia mai parlò di strada, come confine ecclesiastico fra essa e Riva, ma sempre
del rivo Pertuso, rivo di cui il Giardinello tace affatto.
E vedremo, in luogo acconcio, come le bandite dei Gattini o di S. Martino, fossero ritenute in possessione hominum ripe, in base a convegni
fatti fra Taggia e Riva.
Chiudo questa seconda parte della memoria, con un rilievo, che, in ordine alla giurisdizione ecclesiastica, ha, pure, la sua importanza.
Esisteva, nella parrocchia di Riva, un legato, fondato da un Giacomo Gaiardo, per la recita, in ciascheduno venerdì della settimana,
dei sette salmi penitenziali; il reddito ad hoc era stato assicurato su di terreno, situato nel territorio di Riva.
Esaminando il cadastro di Taggia, dell'anno 1682 (pag. 60) trovai il nome del terreno e di colui, che, allora, ne era possessore, con questa
annotazione: « Gio. Antonio Maglio, si deducono lire 30 per la terra delli Prai, per legato dei 7 salmi penitenziali fondato nella
parrocchiale di Riva » (9).
Dunque i terreni, della regione Prai, erano nel territorio di Riva.
Il catasto di Taggia, ossia della città, territorio e giurisdizione di Taggia, è compilato col solito antico sistema, È un catasto
personale, per ordine alfabetico, ordine che però segue, non il cognome di ciascun possessore, ma il nome di battesimo, non distingue,
per divisione, le regioni e tanto meno il territorio delle frazioni, annesse a Taggia, cioè Riva, Arma e Pompeiana inferiore.
Però, potemmo rilevare come i terreni dei Prai, Grangie e Pescine, in gran parte, figurano accollonnati in capo a' possessori della
frazione di Riva.
Esaurita questa parte, dobbiamo ora prendere in esame la legge del 24-30 maggio 1798, che Taggia crede essere il suo palladio.
Dimostreremo come questa legge sia morta pressoché appena nata, checché si voglia sostenere in contrario.
Bibliografia:
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