Lo storico Fornara si è sempre chiesto da dove derivasse il titolo di "Canneto" dato alla Madonna del sobborgo "Colletto" a Taggia.
Poiché la località non è adatta per ospitare, sia in passato che oggi, le canne, pensava che probabilmente il nome fosse di importazione.
Dopo diverse ricerche e viaggi in Italia e contatti con i Parroci della zona interessata, la sua curiosità e sete di sapere venne premiata.
L'origine deriva dal Santuario di Canneto
che si trova nella Parrocchia di Settefrati (Frosinone), paese così denominato in onore dei 7 figli di S. Felicita martirizzata dopo di essi, sotto Antonino, che si disse Pio!
I monaci di Montecassino possedettero il Santuario fino alla metà del secolo XVI, il quale fu costruito su di una antica palude (in origine un cratere vulcanico): da qui il nome di canneto.
Il Fornara ipotizza che i Benedettini provenissero da quella zona e diedero quel nome alla Madonna di Taggia perché il luogo di origine rassomigliava a quello nuovo di insediamento
sia nella vegetazione particolare (faggi, aceri, pini, agrifogli, carpini, ginepri lentischi), sia per la fauna che qui trovarono (orsi, caprioli, camosci,
cinghiali, lupi, cervieri).
Negli Statuti di Triora, ancora nel XVII secolo, si parla di premi da darsi a chi uccidesse un orso od un cinghiale. Per quanto riguarda i lupi,
nel 1813 Taggia subì un'invasione di lupi cervieri, che uccisero e deformarono varie persone.
Appare quindi probabile, secondo Fornara, che per la somiglianza del paesaggio i Benedettini abbiano pensato a Canneto e a quella Madonna.
Una delle prime Abbazie (derivante da Montecassino) sorse a Pedona (Borgo S. Dalmazzo). Nella Biblioteca Reale di Torino si trova tutta la storia,
e cioè La vita del beato e glorioso S. Dalmatio (stampata a Mondovì nel 1602), La vita di santo Dalmatio martire (stampata a Mondovì nel 1709), la Dissertazione di
Iacopo Durandi (stampata a Torino nel 1769). Questi testi affermano, dietro antichi documenti regionali, che Teodolinda di Baviera, vedova
di Autari Re Longobardo d'Italia, passata a seconde nozze col di lui successore Agilulfo di Torino, essendo devotissima al Santo Pontefice Gregorio Magno,
cui facilitò la conversione al Cattolicesimo dei suoi sudditi ariani, domandò e ottenne di far venire i Benedettini da Montecassino a fondare un'Abbazia
nella città di Pedona, detta, in onore del martire S. Dalmazzo, il cui corpo era già stato da essa fatto portare da Auriate a Pedona.
I Benedettini vennero dunque in Piemonte sotto il pontificato di Gregorio I (che durò dal 590 al 604).
L'Abbazia prese S. Dalmazzo per titolare ed ebbe da Teodolinda (vissuta fino al 625) il possesso di tutto il territorio che sta fra le Alpi Marittime, la Stura e
la Vermenagna, sicché i suoi Monaci si affacciarono alle vette dei nostri monti.
Per il facile passo di Tenda, essi scesero nell'ampio territorio dell'omonimo Comune, fondandovi un Priorato col titolo del loro Protettore celeste e dando così
origine a S. Dalmazzo di Tenda, dove tuttora son ricordati.
Si inoltrarono di lì pur verso Nizza, fin oltre il Varo. Da Tenda alla valle di Taggia, vi era un altro agevole passo, quello di Colle Ardente, e vennero
certamente per questo varco, da noi.
I Benedettini occuparono e coltivarono la valle di Taggia prima dell'invasione musulmana dei Mori di Spagna, i quali segnarono la fine del loro dominio.
I Benedettini scomparvero e la popolazione chiese in affitto al Vescovo di Genova (come documentato da una pergamena) nel 972 le tenute, chiamandole res vestrae ecclesiae. Gli islamici
sterminarono la popolazione e distrussero il Convento dei Monaci di Taggia nell'841 e l'Abbazia di Pedona nel 906. In seguito, i Benedettini provenienti
da Pedona ottennero la valle di Taggia dalla Chiesa di Genova: ciò è dimostrato dalla Bolla di Papa Innocenzo IV, data a Lione il 2 dicembre 1246.
Riassumendo: i Benedettini a Taggia si insediarono alla fine del VII secolo; i Mori li spazzarono via prima della metà del IX secolo; l'Abbazia di Pedona, essendo stata anch'essa
distrutta, non risorse più, fu data in Commenda e i loro beni distribuiti ad altri, che ne avevano fatto richiesta, fino dal secolo X.
I Benedettini di Taggia, quindi, provenivano da Pedona e non da Lerino, Francia, come qualche storico pretende, poiché alla Prefettura di Nizza
non vi è nulla che accenni a Taggia, e quindi la notizia dei Monaci Lerinesi stanziati qui è da considerarsi priva di fondamento (il Fornara si riferisce al primo nucleo originale di Monaci: da Lerino e da Genova vennero solo nel X secolo).
Pessime dovevano essere le condizioni della nostra Liguria alla fine del secolo VII. Era tornata di certo quasi selvaggia, specie dopo la violenta scorreria di Rotari,
che aveva spazzato via la civiltà sul litorale.
Gli abitanti della costa scampati ai massacri iniziarono a spostarsi verso nord, si costruirono le case nei pressi del Convento e fu così che nacque Taggia, mentre altri armesi si spinsero in su, fino a Triora e oltre.
Dato che non potevano esistere contemporaneamente due città chiamate Tabia, una al mare e l'altra più in su, l'odierna Taggia
fu fondata senz'altro solo dopo il 641, cioè dopo le incursioni di Rotari, da Luni a Nizza. Il popolo atterrito dovette preferire la vita
dei monti e dei boschi a quella dell'infido litorale. Ecco quindi che le popolazioni di Arma costruirono Taggia, dove si trova attualmente.
Taggia è pertanto
figlia di Arma, e su questo non ci sono dubbi!
In origine la comunità residente a Taggia era molto piccola, perché la maggior parte degli abitanti della costa erano stati uccisi, presi prigionieri, resi schiavi.
Questa piccola comunità era arroccata nella zona del Castello a Taggia. La gente, dopo secoli di distruzioni, si era imbarbarita a tal punto che
i Benedettini dovettero loro insegnare, di nuovo, a coltivare, a cacciare, ad allevare. Il resto della vallata, ancor più selvaggio, non doveva avere
che famiglie nomadi, dedite alla pastorizia e alla caccia, proprio come gli antichi liguri.
I Benedettini scelsero come loro sede la località che ricordava loro Canneto di Settefrati, e lo misero sotto la protezione di quella Madonna,
della quale si procurarono una copia. Si dedicarono intanto alla costruzione del Convento e della Chiesa, dissodando la zona attorno anche con
l'aiuto dei pochi abitanti. Insieme crearono dei terrazzi, dato che la zona era collinosa, ai quali venne dato il nome di fascie. Tutta la
regione Fascia creata e posseduta dai Benedettini doveva misurare almeno 300 mila metri quadrati. Nella pergamena del 972 (di cui si accenna più sopra)
questa tenuta è detta Canneto, cioè, appunto, la sede del Convento Benedettino.
I Monaci, comunque, si spinsero a coltivare anche le zone confinanti, oltre il loro territorio, dove la terra era migliore, fino al porto-canale sulla costa: in pratica
"possedevano" a quel punto oltre 500
mila metri quadrati. Si spinsero anche dalla parte opposta della piana, scegliendo sempre le terre più fertili, arrivando ad avere in tutto oltre 1 milione di
metri quadrati di terra ottima.
Però i Monaci si affezionarono, a ragione, alla zona marittima, dalle parti di Costa Balena o S. Siro. Qui, utilizzando in parte i fabbricati
dell'antica Mansio romana, smantellati già da Rotari, come tutta la Corte donata a S. Siro, costruirono su di una terrazza di roccia, in alto
ed a levante, un nuovo Convento, ove i frati vecchi od ammalati potevano riparare nella fredda stagione, e da dove si poteva sorvegliare meglio
la strada litoranea sottostante ed il mare.
Lì rimisero in onore l'antico centro della donazione di Galione (1), rifacendo una corte indominicata in domo colta,
cioè una tenuta padronale, diretta appunto da quel Convento.
Vennero poi, specialmente sul litorale, altri Monaci Benedettini, provenienti da Genova, dal secolo X alla metà del XIV, sovrapponendosi ai frati
esistenti, continuando l'opera dei vecchi, usufruendo delle strutture esistenti.
Visto che il clima era abbastanza dolce d'inverno, sostituirono l'olivo finalese, dalla ispida fronda, che produceva un olio molto forte, con quello
di Cassino, il quale si adattò così bene, modificando le proprie caratteristiche con fronde spioventi, originando dalle sue olive un olio eccellente, per cui venne
denominata "oliva taggiasca".
I benedettini coltivarono gli olivi a file incornicianti i piani, nei quali seminavano il grano o tenevano le vigne e gli
alberi da frutta. Ma fu un tale successo che quella qualità di olivo finì per invadere l'intera superficie coltiva ((2) e si estese a tutta la
nostra attuale Provincia ed anche oltre, verso Genova e verso Nizza.
Tutta la Valle Argentina, evangelizzata ed aiutata dai Benedettini, deve essere loro riconoscente.
Taggia avrebbe dovuto essere riconoscente ai Benedettini, primi e grandi benefattori. Il Fornara si lamenta infatti (usando i termini "raccapriccio" e "ingratitudine") che la
strada su cui si distendeva un giorno il loro Convento e che avrebbe dovuto chiamarsi in loro onore Via dei Benedettini (come fu deciso nel primo censimento), la Commissione incaricata,
nella seconda seduta, a cui lui non potè prendere parte, preferì chiamarla Vecchia strada di Badalucco.
Chissà come avrebbero risposto quelle ombre dei Monaci, che pare si aggirino sempre in quei luoghi, malcontenti di noi?
Appare chiaro e comprovato che la Madonna di Canneto (statua) di Taggia, non sia altro che una copia di quella del Santuario di Settefrati, portata qui
dai Benedettini e scelta a Patrona del loro nuovo Convento (3).
Il Fornara narra poi le vicissitudini che si svolsero nei secoli intorno alla statua della Madonna e ai possedimenti dei Monaci, le distruzioni saracene,
i morti tra i frati, il corpo di S. Dalmazzo trafugato a Quargnento, poiché l'Abbazia di Pedona era stata distrutta, l'arricchimento di poche famiglie
e potenti a danno dei Conventi abbandonati, la venuta dei Clavesana, dei Conti di Ventimiglia, dei Domenicani (1459), i quali presero il posto dei Benedettini e s'impossessarono delle proprietà rimaste,
gli assalti dei nuovi Maomettani (1560), pirati provenienti dall'Algeria, la costituzione in Taggia della Confraternita della Misericordia (1733),
aggregatasi all'Arciconfraternita della Buona Morte di Roma (1757), che chiese ed ottenne di occupare la chiesa di Canneto, non potendo fabbricarsene una.
Di questa Confraternita così scrive Fornara: "Il nero abito di questi battuti (obbligati a tenere il cappuccio sul viso, meno che nelle processioni
solenni) ed il macabro lor gonfalone portante dipinto un intiero grande scheletro, che ammantato di nero drappo, tiene nella mano destra una falce,
mostrando colla sinistra ai suoi piedi le insegne di tutti i ceti sociali, a mo' di trofeo, dovettero da quel giorno ridurre ai soli confratelli di
quella lugubre Società, i visitatori del Santuario".
La statua della Madonna di Canneto venne quasi abbandonata, messa in disparte, addirittura preferita ad una scultura in legno dipinto ad opera di
un artista "dozzinale" (Mastro Zucchetto), finì prima in una nicchia laterale, poi in un armadio della sacrestia di S. Teresa, dove
i topi le mangiarono la veste di stoffa, gli urti la contusero e ruppero le sporgenze, l'umidità cancellò gli occhi della Madonna, si spezzartono
varie dita delle mani ed al Bambino Gesù ambe le braccia. Per poco non fu spaccata e bruciata.
Il Fornara termina così: Madonna santa! Davvero che davanti a così villano obbrobrio, i miei dispiaceri personali mi paiono molto più lievi!
Io ve li offro in isconto della mia quota di colpa, come taggiasco!.
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Note:
Bibliografia:
L. Muratori, Antiquitates Italicae, Dissertazione 72 e seguenti;
C. De Simoni, Lettere sulle Marche d'Italia;
Liber Jurium Reipublicae Genuensis;
Società Ligure di Storia Patria;
Statuti di Triora.