Borgo San Dalmazzo è un comune piemontese (636 m. s.l.m.), centro agricolo (a 6 Km. da Cuneo) alla confluenza dei torrenti Gesso e Vermenagna.
Corrisponde a Pedo (poi Pedona), centro romano del basso Piemonte di un certo rilievo: presso questo centro, che peraltro costituiva
un importante nodo di percorsi sulla direttrice mare-monti, si pagava la quadragesima Galliarum per le merci che entravano attraverso le
Alpi Marittime (vedi: G. Mennella, La Quadragesima Galliarum nelle Alpes Maritimae, in MEFRA, 104, 1992, 1, pp. 209 - 232).
Nell'alto medioevo la località godette poi della prerogativa di civitas: a causa dei Saraceni fu devastato a metà X sec. sì che la celebre
Abbazia Benedettina (1) che vi era stata eretta e che, particolarmente sulla scia dei Monaci di Lerino, tanta influenza esercitò nel Ponente
ligure da Savona alla Provenza, cadde in rovina come detta il Lamento di Pedona.
La ricostruzione che data all'XI secolo riaffermò in parte l'antico ruolo senza però impedire che a fianco dell'influenza di Pedona si
ponesse quella dalla grande abbazia di Novalesa i cui monaci benedettini istituirono in val Nervia, nel territorio di Dolceacqua un loro
florido Priorato che esercitò notevole influenza agronomica e religioso sulle valli tutte e sull'agro intemelio.
La distruzione ad opera dei Saraceni dell'antica, gloriosa "Pedona" fu invece tale che anche le moderne investigazioni archeologiche
sul luogo dell'Abbazia un tempo tanto famosa, non hanno permesso che minimi rilevamenti: i reperti più significativi, sopravvissuti a
tanta devastazione ed al passare dei secoli, sono alcune tracce dell'originaria cripta (2) qui riprodotte.
Dopo le distruzioni saracene di Pedona l'abitato non fu più ricostruito nel sito originale ma venne riedificato accanto all'Abbazia di
San Dalmazzo (3) che risulta già ricostruita nel 1041.
Il borgo è documentato negli atti dal 1153 dove risulta fortificato e sede di un castello: dal XII sec. fu comune, con suoi ordinamenti.
Fu quindi soggetto a vari Signori fin a diventare importante base dei Savoia che, dopo averne infeudato nel 1372 i marchesi di Ceva, ne
presero diretto controllo dal 1425 atteso anche il loro crescente espansionismo verso la Liguria su cui il centro storicamente gravitava.
(1) Abbazia Benedettina
In epoca tarda si affermava, seppur senza basi documentarie probanti, che il Monastero di S. Dalmazzo di Pedona fosse stato costruito
dai Monaci Benedettini per volontà di una regina longobarda.
Vista la mancanza di notizie certe e il proliferare delle leggende il Riberi fu però indotto a sottolineare come la non conoscenza del
nome del fondatore sia da collegare in qualche maniera alla carenza, forse dal '500, della superstite tradizione documentaria: si
veda A. M. Riberi, S. Dalmazzo di Pedona e la sua abazia (Borgo San Dalmazzo), Torino, 1929 in Bibl. Soc. Stor. Sub., CX, p. 152.
Che la fondazione sia da collegare ad una volontà regia pare suggerito da un fatto relativamente tardo, del X secolo quando cioè proprio
in vigore di siffatta prerogativa il re d'Italia Ludovico fu ingrado di cedere legittimamente al vescovo astigiano Audace il
monastero (vedi L. Vergano, Storia di Asti, I, Dalle origini alla organizzazione del Comune, Asti 1951, p. 54 e seguenti).
Procedendo nella sua analisi sul cenobio, ancora il Riberi sviluppò l'idea che la casa abbaziale fosse stata eretta su proposta di un monarca
longobardo: a suo giudizio l'edificazione sarebbe stata da collocare nell'ambito politico dei primi anni del VII secolo, quasi che
siffatta realizzazione rappresentasse una testimonianza monumentale del graduale processo di avvicinamento di re Agilulfo, fra il
610 ed il 625, a quella linea costiera di Liguria che era rimasta sotto il controllo dei bizantini: l'opzione sarebbe rientrata
nell'opportunità dei longobardi di garantirsi uno stabile controllo dei territori recentemente occupati connettendoli alle sorti della
loro dinastia per il tramite dell'istituzione di case benedettine, notoriamente ben accette alle popolazioni autoctone in qualche modo
fu presupposto per l'istituzione dell'abbazia (l'ipotesi di un'erezione del monastero databile al VII secolo, contro la corrente che ne
postdatava l'edificazione all'VIII secolo, ebbe mediamente successo tanto che risulta ora accolta quasi in toto: vedi per
esempio G. Cantino Wathagin, Monasteri di età longobarda: spunti per una ricerca, in XXXVI Corso di Cultura sull'Arte Ravennate e
Bizantina (Ravenna, 14-22 aprile 1989), Bologna 1990, pp. 82-83.
L'influenza del monastero fu rilevante per una vasta area (in Piemonte, nella Liguria occidentale e in territorio "francese") sia
sul piano spirituale (con la conseguente erezioni di case e monasteri minori) che per l'IMPORTAZIONE DI RINNOVATE TECNICHE COLTURALI
che ancora per la RIVISITAZIONE DELLE METODOLOGIA DELL'AGRICOLTURA: F. Patetta ipotizzò inoltre che siffatta influenza fosse da
estendere anche alla SFERA CULTURALE (Nuove ipotesi sulla patria della cosiddetta Lombarda, in Festscrift fur H. Brunner zum siebzigsten
Geburstag dargebracht von Schulern und Vercheren, Weimar, 1910, p. 3662 e pp. 353 - 362).
Con il termine o titolo di La Lombarda si indica una raccolta, di autore anonimo, della legislazione logobarda e franca: integrando l'inzio
del testo del manoscritto (oggi custodito a Montecassino, cod. 328, p. 135) il Patetta leggeva p[.]donae in p[e]donae e globalmente
interpretava [Ut facilius discant] Pedonae studentes, que una ex italicis civitatibus, opulentissima nobilium virorum et fructuum, in
capite cocciarum alpium sita, inter vicinas urebs sempre velut clarium sidus emicuit, studuimus cunctas sententias [...]" [ibidem, p. 353]: pur
dimensionando le lodi sperticate volte alla località di Pedona il Patetta sostenne, con sufficiente possibilità di esser nel giusto, che in
questo centro operasse un maestro che ai propri discepoli insegnale La Lombarda, avviandoli conseguentemente alla carriera di giurisperiti
o forgiandoli nella conoscenza del diritto germanico.
(2) Cripta originaria
Da "Guida di Ventimiglia".
La critica storica riconosce in San Dalmazzo l'evangelizzatore locale di Pedona, in un'epoca non facilmente
determinabile: un predicatore laico vissuto prima della costituzione della gerarchia ecclesiastica, che svolse la sua attività missionaria
in età pre-costantiniana.
Prove della sua esistenza sono la tomba, il culto dedicatogli fin da tempi immemorabili e l'attuale commemorazione
fissa - il 5 dicembre -, ricordata già nei secoli IX e X; l'ampia diffusione del culto di San Dalmazzo e la relativa compattezza dell'area
interessata fanno pensare ad un precoce irraggiamento del cenobio benedettino, con una penetrazione dovuta ad una vitalità antica del suo
culto, sempre che sia possibile accertare il coincidere con il tempo del primo e maggior diffondersi del culto.
È una diffusione che si
presenta con una distribuzione singolarmente sistematica per essere solo casuale: sui versanti liguri-piemontesi delle Alpi Marittime,
fondazioni dedicate a San Dalmazzo sembrano segnare gli spostamenti dei pastori e dei mercanti: puntualmente ai ponti, in prossimità dei
valichi e nei punti di raccolta degli itinerari" (queste considerazioni sono riprese dalle pp. 142 - 144 di un saggio storico di G. Coccoluto
cui si rimanda anche per gli utilissimi dati bibliografici che esso contiene).
[ L'abside della chiesa paleocristiana ]
(3) Abbazia di San Dalmazzo
I Conti di Ventimiglia estesero il loro dominio alla valle del Maro, uno dei due corsi d'acqua principali che concorrono a formare il torrente
Impero: qui si radicarono profondamente e costituirono un feudo destinato a durare per parecchi secoli. L'espansione dei Conti di Ventimiglia
non si rivolse però solo verso le valli liguri: parallelamente estesero la loro influenza a occidente, a Luceram (nell'alta valle del Paillon
alle spalle di Nizza), e di qui alla valle della Vesubia, e forse alla Tinea e alla val de Blore. Né va dimenticata la presenza avvolgente
dei marchesi Clavesana nell'"hinterland" delle comunità liguri ponentine, avvertibile in una politica volta a tagliare e condizionare gli
espansionismi politico-economici dei centri costieri, secondo un indirizzo svolto poi con maggior fortuna dai Del Carretto.
Nelle vicine valli
dell'entroterra di Nizza, sono sintomo dell'analoga importanza delle traverse la distribuzione e l'assetto delle signorie minori, nonché
l'ubicazione delle presenze degli ordini militari e ospitalieri. Tenendo conto di queste limitazioni e imprecisioni, possiamo tentare un
primo approccio all'esame delle indicazioni offerte dalla bolla Religiosam vitam del 1246 (in Archivio Curia Vescovile di Mondovì, Abbazia
del Borgo, n. 1246 da copia imitativa del 1308, notaio Andrea Bruno), il documento più antico che ci aiuti in probabili identificazioni: infatti,
di altri possedimenti, come ad esempio quelli nell'Astigiano attestati ad Agliano nel 948 (88), non abbiamo documentazione posteriore che
consenta la localizzazione, e mancano le testimonianze sulla più antica dotazione.
Nella bolla alcune chiese compaiono citate per la prima
volta, altre ci sono già note, ma con diverso rapporto rispetto all'abbazia; alcune, come quelle della diocesi di Nizza, le troviamo già
documentate nell'XI secolo, altre solo nel XII. In questa occasione, però, vorrei privilegiare le presenze e i titoli liguri. In Diocesi
Vigintimiliensi ecclesiam sancti Dalmatii de Bergegio cum pertinentiis suis è l'attuale "San Dalmazzo di Tenda", non l'omonima località nel
Savonese con cui il Riberi la identifica.
Dopo le trasformazioni ottocentesche, gli ambienti attuali dell'antico priorato sono adattati ad
uso privato. Bergegio è l'antico nome di San Dalmazzo di Tenda che in tale veste è citato spesso nei documenti del XII e XIII secolo ed era
una località importante per le comunicazioni con Entracque e con l'alta valle dell'Argentina.
Chi, disceso dal colle del Sabbione, si trovava
al San Dalmazzo de Bergegio, veniva "proiettato" nel vasto comprensorio di Briga - lo osserviamo nello schizzo che ne dà il De Negri e in
quello del Beltrutti come comitato di Tenda-, che si estendeva al pascoli nei territori delle alte valli dell'Argentina, del Tanaro e del
Pesio. È spesso indicato come luogo di convegno per atti pubblici, per dirimere controversie, per composizione di pace, per formulazione
di statuti e di leggi. Il suo ponte è citato il 16 maggio 1207 come punto di riferimento nelle convenzioni tra Briga e Triora. In dioecesi
Albingaunensi ecclesiam sanctae Mariae de Caneto a Tagia. In diocesi di Albenga troviamo la dipendenza di Santa Maria de Caneto a Tagia.
La chiesa è situata immediatamente fuori dell'abitato di
Taggia, a poco più di cento metri dalla testata del lungo ponte che con sedici arcate scavalca il torrente Argentina, la fiumara di Taggia.
L'attuale edificio si presenta nella veste di un rifacimento settecentesco, mentre il portale è frutto di un recupero da un'altra chiesa
taggiasca, Sant'Anna, ora distrutta. L'abside è stata ricostruita sulle tracce di quella originaria, nelle forme comuni dell'architettura
ligure del XII secolo. Sul lato meridionale l'affianca l'agile campanile a tre piani di monofore e bifore, databile al XII secolo. All'interno
sono stati recuperati in parte gli affreschi opera dei Cambiaso, del 1547. Anteriormente al 1246 la chiesa non è citata in alcun documento.
Anche la sua dipendenza dal cenobio piemontese non ha altri riscontri: tuttavia il suo status di priorato è ancora ricordato nei decreti
della visita apostolica di mons. Mascardi nel 1585, e nella prima metà del XVII secolo. Prove dell'esistenza più antica abbiamo però
dall'archeologia. Gli scavi effettuati all'interno di Santa Maria del Canneto hanno messo in luce le tracce delle vicende dell'attuale
edificio e della chiesa che lo ha preceduto: si tratta di un'abside, di una cripta e della scala che le dava accesso, di una fase di età
romanica (non romana), e dell'abside di una precedente costruzione altomedievale.
Superate alcune infondate critiche legate all'identificazionee con la
Bergeggi savonese, possiamo concludere la presenza a Taggia dei monaci di Pedona non costituisce un'ipotesi illogica. Ipotesi, questa, legata
alla diffusione del culto di San Dalmazzo, culto che pare rapporsi alle millenarie piste della transumanza, lungo immutate direttrici sui
versanti montani.
A chi proveniva Piemonte, la possibilità di accedere alla bassa valle Argentina era suggerita dalla frequentazione degli
alti pascoli alla testata della valle, dall'uso dei valichi e dei percorsi legati alla pratica della transumanza. Ci sfugge quanto intensi
siano stati i rapporti lungo la valle del torrente Argentina, ma di questi abbiamo una prova indiretta dal tardo romano castelum de
Campomarcio.
La fortificazione ha dimensioni tali da postulare un'importante via di transito orientata verso i valichi dell'alta valle. In
età tardo antica, la "mansio" di "Costa Balenae" (per altri Costa Beleni), l'approdo del "Tavia fluvius" dell"'ltinerarium Maritimum" (105),
il battistero ed il complesso paleocristiano del V-VI secolo costituivano il polo di aggregazione allo sbocco della valle sul litorale,
sorto sulla via Julia Augusta, poi a Roma per Tusciam et Alpes maritimas Arelatum usque. Alternativa al centro romano di "Costa Balenae"
sarà la "Tabia" altomedievale, entità giurisdizionale sotto il titolo di Villaregia, riconoscibile nella bassa valle dell'Argentina sino alla
stretta di San Giorgio di Campomarzio.
L'altro polo della valle è da ricercare nei transiti, e nei relativi incroci, nell'alta valle
stessa. Il De Negri nel suo studio sull'estremo Ponente ligure ha indicato la viabilità in questo settore vallivo mettendone a fuoco
percorsi e nodi, analisi successivamente ripresa dallo Stringa. Da Briga per il passo di Collardente (1601 m.) si accedeva ai pascoli
dell'ampia conca di Verdeggia e di Realdo, quindi per il passo della Guardia (1461 m.) e la colla di Garezzo (1795) si giungeva a Mendatica
nell'alta valle Arroscia. Sempre da Briga, per la colla di Sanson (1696 m.), si andava a Triora, da dove, per i passi di Monega (1654 m.)
e della Mezzaluna (1454 m.) si scendeva a Rezzo, in una valle laterale nella parte superiore della valle Arroscia.
È da sottolineare, in
particolare, che in corrispondenza dei valichi citati essa intersecava la direttrice della "via marenca" (via mare-monti nell'etimologia
ligure) più sopra già ricordata. È Triora che individuiamo come polo aggregativo dell'alta valle, e notiamo come la chiesa, ubicata nel
nucleo più antico del paese, è dedicata a San Dalmazzo.
Nel loro insieme, queste considerazioni confermano l'ipotesi, nuovamente "non illogica",
della presenza a Taggia dei monaci pedonensi. Solo rimane l'interrogativo di fondo relativo al momento del loro arrivo, legato al problema
della cronologia della diffusione del culto di San Dalmazzo: alle fortune iniziali nel momento della fondazione longobarda del monastero
piemontese o in quello carolingio, o, ancora, durante la ripresa dell'XI secolo? È suggestiva ipotesi pensare alla spinta, avvenuta in età
longobarda e favorita dalla politica regia, quando la presenza pedonense avrebbe allora scavalcato la fortezza di Campomarzio, fulcro delle
difese della valle (non dimentichiamo che molti "vollero identificare" nel territorio di Taggia il distretto del Kastron Tabia della
"Descriptio orbis romani" di Giorgio Ciprio).
Ma si può anche pensare che i monaci contribuissero anch'essi con il loro umile e anonimo lavoro alla ripresa
avviata allo spirare del X secolo, impresa di cui conosciamo le prime avvisaglie nelle concessioni a livello del vescovo Teodolfo nel 979
delle terre vastatae et sine habitatore relictae. Pur non disponendo di alcun elemento a supporto di qualsivoglia tesi, in ogni caso ci
troviamo di fronte allo specchio di una penetrazione dovuta a una vitalità antica dell'istituto monastico.
In dioecesi Niciensi sancti Donati
de Piastis, sancti Ferreoli de Maria, sancti Laurenci de Yllonci, sancte Maria de Ylloncia, sancti Petri in Cancio de loco Rigaldi, sancti
Genesii de Bolio, et sancti Nicolai de Andobio, ecclesias cum pertinentiis earundem; prioratum sancti Dalmatii de Blora cum pertinentiis suis
In dioecesi Glandecensis sancti Michaelis de Priresto, sanctae Mariae de Salsis, sanctae Peirae de Salsis, sancti Ponti de Salagrifon, et
sancti Dalmatii de la Ribrosta, ecclesias cum pertinentiis suis; prioratum sancti Benedicti de Priresto cum pertinentiis suis.
Consideriamo
unitamente i due gruppi, poiché per entrambi valgono le stesse considerazioni. Sono località per la maggior parte conosciute dal confronto
con la documentazione del Cais de Pierlas, dove le ritroviamo già citate nel XII secolo, come dipendenti della Chiesa nizzarda e notiamo che
i priorati sono saldamente inseriti nelle valli che portano a Nizza, occupandone i nodi per il controllo delle traverse e dei valichi minori,
sì da avere libero passaggio da una valle all'altra.
Utile per capire i legami da valle a valle è il confronto con le aree di influenza
delle minori signorie locali. Si osservino particolarmente le distribuzioni delle signorie, accentrate sul Beuil, con Péone, Toubion, Roure,
Marie, llonse, Rigaud, Pierlas, Thiery, Bairols, e su St. Sauveur e Rostaing in Val de Bloure, con Rimplas, Clan, Isola, St. Etienne e
St. Dalmas, di cui erano consignori i priori di San Dalmazzo.
Ulteriore utile confronto è quello con lo stanziamento degli ordini militari
e ospedalieri e con le strutture viarie e religiose: i cartogrammi dimostrano il costante ripetersi di simili situazioni demopolitiche in
un ampio arco diacronico (oltre alle pagine del Cais de Pierlas, per l'attestazione dei diritti dell'abbazia si vedano le indicazioni nei
regesti del Riberi). Nei rapporti di dipendenza e filiazione è emblematico il caso di San Dalmazzo Valdeblore che, a ribadire gli stretti
legami delle origini, ripete non solo gli schemi planimetrici dell'abbazia madre, particolarmente già evidenti nella cripta, ma anche
l'impianto strutturale, ben messo in evidenza dai restauri degli anni 1978-83, curati dal Trubert (testo integralmente riprodotto dal saggio
di G. Coccoluto cui si rimanda per ulteriori approfondimenti).
Storia della Chiesa
La chiesa sorge sul luogo della sepoltura di San Dalmazzo, predicatore laico primo evangelizzatore della zona delle Alpi Marittime, della
Longobardia e della Provenza, secondo la tradizione martirizzato il 5 dicembre 254 d.C.
L'attuale struttura è l'insieme di molteplici
interventi che in diverse epoche hanno segnato la storia dell'Abbazia di San Dalmazzo di Pedona. Un primo edificio di culto sarebbe
sorto nel V secolo in un'area cimiteriale ad est della città romana (Municipium di Pedona).
Verso il VI secolo viene eretta una piccola
chiesa con relativa cripta ad opera di San Valeriano di Cimiez, vescovo della zona.
In epoca longobarda l'originario nucleo monastico
viene ampliato e potenziato dalla regina Teodolinda verso la metà del VII secolo.
Durante il periodo della cosiddetta rinascenza
Liutprandea viene costruita un'aula basilicale con relativa cripta, di cui permangono notevoli resti nel basamento murario e nella
decorazione in stucco ed in pietra.
In età Carolingia la struttura viene ampliata per dare possibilità alle folle dei pellegrini
che giungono anche da paesi lontani, di poter sostare e pregare sul sepolcro contenente le reliquie di San Dalmazzo.
Un documento del
IX secolo, l'Additio Moccensis conferma la descrizione della costruzione come luogo di culto composto da due strutture: una chiesa
ed una sottostante cripta. La chiesa longobarda viene distrutta dai Saraceni intorno al 906 d.C. e le reliquie del Santo (che i Saraceni
non profanano ed anzi permettono ai Cristiani di visitare pagando un tributo) vengono trasportate in salvo con un colpo di mano, da
Audace, Vescovo di Asti Quargnento. Dopo la distruzione Saracena i monaci benedettini ricostruiscono la grande chiesa a cinque navate
con tre absidi e ingrandiscono la cripta originaria sotto il presbiterio.
L'attuale chiesa romanica risale all'XI secolo, epoca della
ricostruzione.
Testimonianza importante è la splendida facciata romanica, riportata alla luce nel 1982. Ancor oggi si può vedere che la
facciata era suddivisa in cinque specchiature e scandita da un coronamento di archetti rampanti a livello della copertura, del quale si
colgono tuttora l'andamento ed i residui elementi in cotto.
Il portale era probabilmente sagomato da due colonne leggermente incassate
rispetto al filo delle pareti, sormontate da capitelli (conservati al Museo Civico di Cuneo) in pietra verde del Roia che reggevano
l'arco a tutto sesto e l'architrave.
Sull'asse del grande portale erano impiantate una grande croce latina incassata di metri 2,62 x 1.60
con l'affresco di un Cristo crocifisso (del crocifisso sono ancora visibili avambracci e mani destra e sinistra, lievi tracce dell'aureola
e della carnagione, i piedi divaricati e qualche stilla di sangue); una bifora (dove oggi si vede il rosone centrale) e superiormente una
finestra a croce greca.
Le navate laterali della chiesa possedevano ognuna una monofora strombata. Successive trasformazioni
della chiesa culminano nel 1703 quando il vescovo Mons. Isnardi del Castello conferisce un ornamentazione baroccheggiante alla struttura
muraria, facendo sopraelevare la facciata romanica con un fastigio, riducendo la chiesa a tre navate e ricavando dalle navate esterne le
cappelle laterali attualmente esistenti.
Le volte vengono impreziosite da cornicioni, da ricchi stucchi dorati e da rifiniture in finto
marmo.
Le reliquie di San Dalmazzo conservate prima nella cripta medioevale poi nella cappella Angioina, vengono sistemate nel 1672 nella
cappella absidale sopraelevata sul coro, dove si trovano ancor oggi.
Durante la Rivoluzione Francese la chiesa venne profanata ed adibita
a caserma e deposito per circa quattro anni (1793 - 1797) subendo notevoli danni alle strutture.
Nel
1835 vengono effettuati altri interventi alle navate e nel 1837 vengono scolpite le bellissime porte in legno di noce dell'ingresso, tuttora
presenti.
Nel 1862 si restaura ed alza il campanile che, per necessità di intervento, subisce una successiva ricostruzione nel 1903 quando,
su progetto dell'Ing. Cesare Arnaud di Cuneo, viene modificato in stile neogotico ed ulteriormente innalzato.
Nel 1952 si realizzano
interventi di un primo recupero dell'antica cripta, ma negli ultimissimi anni che inizia un grande lavoro di studio, progettazione e restauro
dell'intera struttura con l'intento di recuperarne il notevole patrimonio artistico-culturale facendola ritornare allo splendore
medioevale.
[ Cripta romanica ]
Questo documento, in pratica, raggruppa tutte le pagine sull'argomento, pubblicato su www.culturabarocca.com, del Prof. B. Durante. Lo scopo è stato quello di agevolare il lettore.