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LA BATTAGLIA DI PIDNA

L'antefatto

Perseo, figlio di Filippo V di Macedonia, divenuto re dopo la morte violenta del fratello Demetrio, per opera del padre, si era montato un po' la testa, come si suol dire, e i romani erano stufi delle scorrerie di sue navi pirate e iniziative diplomatiche presso le tribù dell'Illiria, dell'Eubea e della Lega Achea, volte a ottenere favori e alleanze militari in previsione di una guerra contro Roma.
Il Senato romano inviò quindi in Macedonia il Console Lucio Emilio Paolo (figlio del Console Lucio Emilio Paolo ucciso nella battaglia di Canne Link esterno) e il Pretore Anicio Gallo, al comando di oltre 35.000 uomini e 1.500 cavalieri, per integrare e rinnovare l'esercito macedone.
Anicio non perse tempo e liberò l'Adriatico dalla flottiglia (80 vascelli) di Genzio (l'ultimo re degli Illiri Mostra/Nascondi) che infastidivano e depredavano i convogli romani e pergameni Link esterno.
Perseo intanto si era acquartierato presso il fiume Elpeo (l'odierno Mavrolungo) creando una linea difensiva ben protetta e fortificata.
Emilio, con un'abile e astuta mossa, inviò un contingente di 8.000 Italici, 200 Cretesi e 1.200 cavalieri, nella regione montagnosa a ridosso dell'accampamento di Perseo, per tentare di aggirare l'esercito macedone. Nel contempo fece "finta" di imbarcarsi con la sua flotta ancorata a Eracleo, in modo da "depistare" le sue vere intenzioni. Perseo subodorò l'inganno e inviò un contingente di 5.000 uomini a difesa dei passi montani.
Il "drappello" romano, agli ordini di Publio Scipione Nasica, genero di Scipione l'Africano, con un po' di fortuna e abilità riuscì a sbaragliare la maggior parte dei soldati macedoni, sorpresi negli accampamenti montani. Quando Perseo lo venne a sapere ordinò la ritirata generale verso il nord, attestandosi nei pressi di Pidna, dietro il corso del fiume Leuco, più piccolo dell'Elpeo e quindi considerato di fatto un ostacolo modesto.
Questo fu l'errore determinante della sua infelice e ingenua strategia.
Nel frattempo Emilio si ricongiunse con Nasica, all'inseguimento di Perseo. Gli ufficiali romani e i soldati erano entusiasti per il buon andamento delle cose e avrebbero voluto concludere subito la faccenda. Il morale dell'esercito era alle stelle ma Emilio non era certo un uomo da farsi guidare dalle emozioni e dall'improvvisazione. Sapeva di avere di fronte un esercito agguerrito e la piana di Pidna era la più adatta per l'azione della terribile falange macedone.
Anche Perseo era un po' preoccupato. Non avendo accettato di difendere l'Elpeo e combattere in posizione favorevole, era costretto ora alla battaglia campale: evento molto pericoloso perché se avesse sbaragliato Emilio, non avrebbe vinto la guerra, mentre se fosse stato sbaragliato lui, avrebbe perso ogni cosa.
In queste condizioni psicologiche i due eserciti si fronteggiavano armi alla mano.

Lo scontro finale

Dopo essersi studiati per qualche giorno, all'alba del 22 giugno del 168 a.C. i due eserciti si schierarono a battaglia, l'uno di fronte all'altro, avendo alle spalle i rispettivi accampamenti e di fronte il corso del fiume Leuco. Ma né Perseo, né Emilio si decidevano a dare l'ordine dell'attacco. Ognuno dei due aspettava che attaccasse l'altro.
Perseo aveva i suoi motivi. Pensava che se avesse scatenato le ali rischiava, in caso di sconfitta della sua cavalleria, di venir preso di fianco, cioè nel punto debole della falange. Aveva attentamente studiato la tattica romana e l'andamento delle recenti battaglie combattute dai Romani in Oriente e ne aveva dedotto la necessità di tenere gli schieramenti il più compatti possibile. Bisognava assolutamente ricevere l'urto romano frontalmente. Allora il blocco d'acciaio della sua falange avrebbe potuto dimostrare tutta la sua efficacia. Rotto l'attacco romano, solo allora sarebbe stato possibile e utile contrattaccare.
Ma bisognava anche indurre Emilio a combattere, laddove era chiaro che il generale romano non ne aveva molta voglia.
Allora sul mezzogiorno Perseo si indusse a uno stratagemma, anche se un po' rischioso. Fece mostra di voler ricondurre l'esercito negli accampamenti e a tale scopo fece fare alle sue schiere varie evoluzioni che ne scompaginavano lo schieramento. Se i Romani avessero abboccato all'amo di questa apparentemente ottima occasione, egli non sarebbe stato così impreparato come voleva far credere.
Emilio, fermo nel proposito di non attaccare per primo, e non troppo convinto dalla sin troppo palese ingenuità dei movimenti di Perseo, restò impassibile.
Allora gli ufficiali e i legionari, cui pesava tra l'altro la terribile tensione delle molte ore di attesa, chiesero a gran voce al Console di combattere. Anche ai più diretti collaboratori di Emilio pareva che si stesse perdendo un'ottima occasione, che si dovesse subito sfruttare l'errore di Perseo. Altri, amareggiati, non parlavano di errore: dicevano che Perseo si era messo a fare evoluzioni sotto il naso dei Romani per scherno e disprezzo, per mostrare ai suoi soldati sino a che punto i Romani fossero intimoriti e vigliacchi.
Il fermento era notevole ed Emilio, per placarlo senza demoralizzare i suoi uomini, ricorse a un'abile bugia: fece riferire che il suo comportamento era motivato dal cattivo responso dei sacrifici religiosi che il Console aveva compiuto sul far del giorno. Gli Dei romani, insomma, non erano quella mattina di luna buona e non era il caso di provocarli.
Gli uomini si calmarono un po'. A ogni buon conto Emilio non ritirò l'esercito negli accampamenti, come invece avevano finito per fare i Macedoni, vista l'inutilità delle loro manovre. Emilio, uomo prudentissimo quanto esperto, non aveva digerito lo scherzetto che aveva tentato di fargli Perseo e non intendeva correre rischi di alcun genere: meglio che i soldati stessero pronti materialmente e spiritualmente.

Passarono così le ore calde. Ormai la gran tensione era caduta e nessuno più pensava che per quel giorno si sarebbe combattuto, anche se i Romani bivaccavano fuori dall'accampamento.
A metà pomeriggio alcuni Italici ottennero il permesso di andare ad attingere acqua dal fiume. Si trattava di un migliaio di uomini circa: Liguri, Marrucini, Peligni e un certo numero di cavalieri sanniti.
Giunti sulla riva del Leuco, gli Italici indugiarono a rinfrescarsi. Dall'altra parte del fiume, a poca distanza, stava una folta schiera di Traci, recatisi anch'essi al fiume ad attingere acqua. Tra le due opposte schiere ci fu uno scambio di frizzi e di provocazioni verbali. Ma l'atmosfera era molto più scherzosa che minacciosa.
A un certo punto, però, un cavallo dei Romani prese chissà perché la fuga lungo il fiume, rincorso dal suo proprietario e da alcuni suoi compagni. Il cavallo non si riusciva a prendere e tutti ridevano e motteggiavano. I Traci se la spassavano un mondo a vedere i Romani correr dietro a un cavallo senza riuscire a fermarlo e dalle loro bocche uscivano le più salaci osservazioni. Poi alcuni di loro, più vicini alla direzione che il cavallo aveva preso, ebbero l'improvvisa idea di catturarlo e a tale scopo attraversarono il Leuco (l'acqua era bassa: arrivava a metà coscia). Iniziò così una strana gara fra Traci e Italici a chi raggiungesse per primo l'animale. Ma allora lo scherzo subito degenerò; non appena i primi Traci e Romani si trovarono a contatto si accapigliarono, immediatamente soccorsi dai compagni più vicini.
La cosa si faceva seria. Gli ufficiali Italici presso il Leuco organizzarono gli uomini, mentre i Traci si affrettavano a passare il fiume affinché i loro compagni, in minoranza, non venissero travolti. Lo scherzo si trasformò presto in uno scontro durissimo, nel quale gli Italici ebbero la peggio e cominciarono a retrocedere verso l'accampamento, incalzati dai Traci.
Perseo vide in quella scaramuccia l'occasione buona per indurre Emilio a combattere. Dimenticandosi di tutte le sue sagge regole di prudenza, della sua determinazione di lasciar attaccare i Romani per primi, forse incoraggiato dall'atteggiamento sino ad allora timoroso del Console romano, forse esasperato perché il nemico non aveva abboccato al suo trucco del mattino, forse ispirato dal suo cattivo genio, Perseo decise, su due piedi, di far uscire l'esercito e di lanciarlo sulla scia dei Traci.
Allora Emilio raccolse i frutti della sua esperienza e della sua accortezza. Il suo comportamento, in apparenza contraddittorio (non si decideva ad attaccare nemmeno quando i nemici gliene offrivano la migliore delle occasioni, ma lasciava poi l'esercito in campo, sotto il sole, mentre i Macedoni erano rientrati negli accampamenti, non si capiva bene a fare che), si rivelava ora prezioso e determinante. Infatti Perseo, per quanto si fosse sempre tenuto pronto, non potè far uscire i suoi uomini tutti insieme; le varie schiere si scaglionarono inevitabilmente. Emilio, con tutti gli uomini già pronti a intervenire, potè rendersi conto rapidamente della situazione, scorgerne subito i lati per lui positivi e passare fulmineamente all'azione, senza soluzione di continuità.
Perseo aveva fatto uscire le milizie mercenarie e i 3.000 soldati della guardia del re. Costoro andarono di rincalzo ai Traci, costituendo in pratica l'ala sinistra dello schieramento. Subito dopo usciva la falange, in due ondate successive (prima il corpo dei Calcaspidi, poi quello dei Leucaspidi, secondo l'ordinamento tradizionale) che si dirigevano di gran carriera verso il fiume e cominciavano a guadarlo. Per ultime dovevano uscire le milizie alleate (che dovevano schierarsi sulla destra della falange e proteggerne il fianco) e infine la cavalleria che costituiva l'ala destra dell'esercito e che Perseo avrebbe comandato di persona.
Emilio, vista la rotta degli Italici, aveva lanciato in loro soccorso la fanteria leggera ausiliaria e alcune torme di cavalleria. Il centurione Salvio, con un gesto di grande eroismo, aveva afferrato a un certo punto l'insegna del corpo e si era scagliato in mezzo ai nemici; subito molti compagni, arrestando la fuga, gli erano andati dietro affinché l'insegna non cadesse in mano al nemico: questo episodio aveva rianimato l'ala destra romana che cominciò a fare più ferma resistenza ai Traci e ai soldati della guardia reale.
Ma intanto Emilio aveva colto al volo il nocciolo della situazione: le due schiere della falange erano fra loro distanziate e ancor più l'ordine compatto dei ranghi si sarebbe rotto nel passaggio del Leuco. Bisognava assolutamente coglierle in quel momento delicato, prima che potessero riunirsi e avanzare compatte e terribili verso l'accampamento romano. Esse erano inoltre isolate perché l'ala sinistra si era spinta troppo avanti nell'inseguimento degli Italici e l'ala destra, costituita dalle fanterie leggere uscite per ultime, era ancor più distanziata. La cavalleria, poi, non si faceva ancor vedere per nulla.
Allora il Console lanciò una Legione contro la prima schiera di falangiti che avevano appena guadato il Leuco e che stavano riordinandosi; mandò invece la seconda Legione al comando di Lucio Albino incontro alla seconda schiera, che stava per guadare il fiume, e rinforzò i legionari con parte della cavalleria e con gli elefanti. Tenne poi in serbo il resto della cavalleria e 2.000 veterani, in attesa degli eventi e di ciò che avrebbe fatto la cavalleria macedone non ancora apparsa.
L'attacco delle Legioni fu terribile. La falange non solo era spezzata in due, ma anche i suoi due tronconi, impacciati dal fiume, non erano schierati con la necessaria compattezza. Si vide poi subito che la tattica elastica dei manipoli romani era micidiale per lo schieramento rigido e lento dei falangiti, soprattutto quando essi non avevano alcuna protezione sui fianchi. La falange non poteva far fronte all'attacco contemporaneo da tre lati senza perdere il collegamento, e cioè quel suo caratteristico schieramento a testuggine, gli uomini a contatto di gomiti, le file addossate l'una all'altra, gli scudi abbassati a formare come un'unica corazza, le lance, di differente lunghezza a seconda della fila, imbracciate a costituire un'irta selva di punte, schieramento che rappresentava tutta la sua forza d'urto.
I due tronconi della falange si frantumarono come biscotti, al primo urto. Lo scontro si frazionò in tanti piccoli duelli di gruppetti separati, in un corpo a corpo nel quale i Romani eccellevano per l'ordine e il collegamento che i manipoli riuscivano a conservare e per l'armamento più leggero e più maneggevole, adatto a questo tipo di lotta. Dopo breve resistenza i falangiti di entrambe le schiere furono posti in fuga e ripassarono precipitosamente il fiume, il che li disordinò ulteriormente e rese micidiale e cruentissimo l'inseguimento romano. Anche le truppe leggere, che avrebbero dovuto proteggere sulla destra la falange e che arrivavano tardi allo scontro, vennero travolte nella fuga generale, soprattutto perché si trovarono di fronte i cavalieri e gli elefanti che, in previsione di tale circostanza, Emilio aveva appunto abbinato alla legione di Albino.
Intanto il Console, che aveva intuito subito la buona piega degli eventi, aveva senz'altro scatenato i suoi rincalzi sull'ala destra, contro i Traci e le guardie reali, e li aveva sbaragliati. Costoro, rimasti completamente isolati per la fuga delle falangi, si erano resi ben presto conto di non avere scampo.
Perseo aveva appena schierato la cavalleria, che già tutto il suo esercito era volto in fuga e la battaglia irrimediabilmente perduta. Allora girò i cavalli e fuggì anche lui.

II comportamento di Perseo, in questa decisiva e ultima battaglia, ha suscitato, già presso gli antichi, infinite discussioni. A parte la discutibile decisione di mandare allo sbaraglio tutto l'esercito dietro lo scontro casuale e fortunato dei Traci, resta poi da capire perché Perseo abbia atteso così a lungo a schierare la cavalleria, da non permetterle nemmeno di pigliar parte allo scontro. Diverse versioni, invero poco convincenti e attendibili, riferiscono che Perseo quel giorno era sofferente per un calcio del suo cavallo; oppure che egli si attardò non per il calcio, ma perché volle fare un sacrifico agli Dei, appena iniziatasi la battaglia. Se si considera che essa durò appena un'ora o poco più (tanto perfetto e travolgente era stato l'assalto delle due legioni e tempestiva la strategia del Console), si può capire come qualsiasi ritardo, anche lieve, nell'azione abbia potuto produrre conseguenze disastrose.
Ma, a parte le dicerie e le leggende, resta il fatto che Perseo tenne nell'accampamento la cavalleria e attese tanto a farla uscire che poi non ebbe modo di impiegarla. Perché si comportò in questo modo? Assolutamente inaccettabile è la versione, pure avanzata, che egli agì così per proteggersi e cioè per personale paura fisica: Perseo non era un genio come comandante, ma era senz'altro un combattente valoroso, come dimostrò in diverse occasioni.
Più probabile è che egli non si aspettasse assolutamente il crollo rapidissimo e improvviso della sua falange e che non avesse compreso a tempo la fredda e geometrica precisione del contrattacco di Emilio. Nel suo piano di battaglia la cavalleria avrebbe dovuto essere la carta vincente: dopo la resistenza vittoriosa dei falangiti, egli l'avrebbe lanciata contro il punto più debole dello schieramento romano travolgendolo e accerchiandolo. Questo doveva avere in mente; ma la rapidità tragica degli avvenimenti rese vani i suoi calcoli e improduttiva la sua attesa. Quando si decise a schierare la cavalleria, l'arretramento delle sue linee era divenuto rotta disperata, sicché se avesse ordinato la carica avrebbe mandato i suoi uomini al macello, proprio addosso ai falangiti che correvano disperatamente loro incontro con i cavalli, gli elefanti e i soldati romani alle calcagna.
Se lo scontro vero e proprio era durato un'ora, sino a notte poi i Romani inseguirono i Macedoni in fuga. La gran parte di essi corse verso il mare, che era vicino. All'ancora li attendeva la flotta romana. Molti, nondimeno, si gettarono in acqua, nella speranza che i marinai romani li salvassero prendendoli prigionieri. Con molta ferocia vennero invece massacrati e quelli che restarono sulla riva, raggiunti dalla cavalleria e dagli elefanti, vennero a loro volta fatti a pezzi. La battaglia si concludeva così con un'immane carneficina, nella quale i Romani sfogavano finalmente le amarezze dei primi tre anni di guerra e i dileggi che avevano dovuto tollerare dai Greci. Il tanto esaltato esercito macedone non esisteva più.

Pidna

[Pidna, indicata con la freccia rossa, sul Mar Egeo]


Vi fu qualche anno di relativa calma, ma dopo alcune ribellioni tra le popolazioni macedoni e greche contro Roma, sobillate dai soliti facinerosi che speravano in un facile successo e potere, i romani intervennero ancora con l'esercito, sbaragliarono gli insorti e la Macedonia venne ridotta definitivamente a provincia romana, governata da un Proconsole con sede a Tessalonica.
Per quanto riguarda la Grecia, i romani entrarono a Corinto, una delle città più belle della Grecia, e venne data alle fiamme, a seguito dell'ordine perentorio del Senato.
Sulle sue rovine i Romani sparsero il sale e consacrarono il suolo agli dei dell'Inferno, così come avevano fatto con Cartagine nel 146 a.C.
L'Ellade, la Grecia, scomparve. La regione, divenuta anch'essa provincia romana, ebbe il modesto nome di Acaia.

I romani intervennero anche presso Antioco IV di Siria che aveva sconfitto duramente l'Egitto e che si stava impadronendo di tutto il suo territorio, cosa che Roma non poteva certo permettere.
Il Legato romano Caio Popilio Lenate affrontò Antioco a Eleusi, presso Alessandria d'Egitto, e gli intimò in modo spiccio l'ordine del Senato romano di uscire con il suo esercito dai confini dello stato egiziano. Poiché Antioco esitava e chiedeva di riflettere, prima di dare una risposta, e di consultarsi con i suoi consiglieri, Popilio Lenate tracciò col suo bastone un cerchio nella sabbia intorno alla persona del re siriaco e gli replicò asciutto asciutto: « Decidi qui! ».
Così gli ambasciatori romani si permettevano di trattare ormai gli ultimi sovrani d'Oriente. Antioco decise, cioè si ritirò. La sua umiliazione, rimasta celebre, assurse a valore simbolico della potenza ormai sovrana di Roma. Ha scritto il Corradi: «In poco più di un trentennio quattro meravigliose vittorie - Zama, Cinocefale, Magnesia, Pidna - avevano dimostrato l'indiscutibile superiorità militare di Roma [...] Stabilita l'egemonia romana nel Mediterraneo occidentale con la sconfitta di Cartagine e nel Mediterraneo orientale con la caduta della Macedonia e l'umiliazione del regno di Siria, i Romani, che avevano creato il più vigoroso organismo politico, avevano in realtà anche poste le fondamenta del loro impero universale, che tendeva a ridurre per la prima volta a unità le terre mediterranee e tutto l'antico mondo civile.»

Una curiosità: lo svolgimento della Battaglia di Pidna (vinta da Lucio Emilio) e della Battaglia di Canne Link esterno (vinta da Annibale) fanno parte tuttora del "Manuale di Tattica/Strategia Militare" in dotazione all'Esercito degli Stati Uniti d'America.

Ricostruzione della battaglia di Pidna

[ Ricostruzione della battaglia di Pidna ]


Bibliografia:

Pierre Binchois, Roma e l'oriente.



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