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APPUNTI E NOTIZIE SUL TERRITORIO DI ARMA E TAGGIA (3)


  Cap. 3
 
 

Cap. 3

Dell'importanza dei ruderi romani che si trovano al capo Armea nessun autore ha finora parlato, pochi hanno parlato delle scoperte del Capo Don o San Siro; invece quasi tutti gli autori di libri di storia o di viaggi che si riferiscono a queste località riportano il testo della lapide trovata sulla collina della grotta di Arma.
Nel 1564 nello scavare i fondamenti della torre o bastione che ancor oggi esiste, si rinvenne questa lapide in marmo con questa iscrizione:


Disegno della Lapide Lapide originale

Questa lapide venne incastrata sul muro della torre stessa al disopra della porta. I nostri buoni antenati nell'ammirazione di questo monumento, gli dedicarono gli onori di un'altra iscrizione incastrata proprio al di sopra della precedente che suona così:
Tabiates crebris turcarum invasionibus (!) vexati - quo sibi et posteris tutiorem sedem pararent - hoc propugnaculum titulo Annunciationis nuncupatum - cum tabella mirae vetustatis hic inventa erexere - Anno a partu Virginis MDLXV die XXV Martii.

Circa quarant'anni fa il Governo si impossessò della torre in forza di una legge che attribuiva al Governo la proprietà di tutte le fortezze o opere di difesa, dei paesi, e la vendette poi unitamente al monticello su cui è posta, per lire 1800. Il Comune di Taggia protestò e fece anzi una lite per rivendicare la sua proprietà, ma finì col perdere, oltre la torre, anche la lite e le conseguenti spese che ne risultarono.
La lapide antica fu poi divelta dal suo posto per mandato del nuovo proprietario della fortezza, inconscio della barbarie, che commetteva. Ciò che è strano però si è che non si potè più sapere dove mai questa lapide sia andata a finire.
Noi però vogliamo assolverlo dall'accusa di aver fatto un gran danno alla storia, perché siamo convinti che la lapide di cui è questione, sia semplicemente una falsificazione eseguita poco tempo prima dell'erezione della fortezza da un qualche studioso di antichità storiche, forse da un frate Domenicano. Il Convento era esposto al pericolo di più invasioni di pirati turchi perché situato ad una certa distanza dal paese e quindi fuori del recinto muragliato del paese; e perciò, più che ai cittadini di Taggia, premeva ai frati domenicani che si erigesse in Arma una torre per impedire gli sbarchi dei pirati ed evitare così con più sicurezza qualche invasione.
Da parecchi anni nel parlamento di Taggia si trattava la questione di erigere sulla spiaggia verso Arma una torre a tale scopo, ma la questione non si decideva mai. Intanto il 10 giugno 1564, i turchi sbarcarono all'Arma e vennero all'assedio di Taggia; i frati domenicani in fretta e furia si rifugiarono nel paese, lasciando chiesa e convento in preda ai barbari invasori.
In quella giornata memorabile si combattè con molto valore e accanimento da parte dei tabiesi e dei turchi, ma infine questi ultimi si ritirarono portandosi via i morti ed i molti feriti.
Dopo questi fatti il Padre Priore dei Domenicani con pubbliche prediche, avvertimenti e consigli esortava il popolo di Taggia (e Arma) a fabbricare una torre vicino alla via del mare per impedire queste sì dannose apparizioni dei barbari che troppo spesso desolavano le popolazioni del litorale.
E volendo troncare una buona volta le continue dispute che già da anni si facevano sul luogo da destinarsi a tale opera, un bel giorno il Padre Priore dei Domenicani, alla testa dei suoi frati, se ne vennero in processione al luogo di Arma e sopra il promontorio della grotta della Madonna, si accinsero a portar sulle spalle, dal vicino lido, le pietre per fabbricare la torre della quale già tanto si era parlato.
Gli uomini e le donne che formavano il lungo seguito di quella processione, si misero ad imitarli e cominciarono anche a scavare le fondamenta per costrurre la torre. È in questa circostanza che si trovò la lapide di marmo coll'iscrizione che abbiamo riportato sopra.
Ma il rinvenimento di questa lapide fu certamente una trovata dei padri domenicani per destare l'entusiasmo nei tabiesi onde invogliarli a mettersi di buon animo alla costruzione di quest'opera così importante per allora, lasciando credere che tale località, fosse stata in antico luogo di vittoria e sede di castello o fortezza come dice la lapide, e ciò lasciasse pronosticare anche buoni presagi per l'avvenire.
Ma riguardo all'importanza di questa lapide è abbastanza chiaro e decisivo quanto ne scrive il prof. Angelo Sanguinetti nel Vol. III degli atti della Società di Storia Patria. Il Muratori dopo aver riferita l'iscrizione, aggiunge: Aliquid esotici in ista habes. Egli riconosce adunque che questa ha un certo non so che di esotico. Ma così come noi l'abbiamo riportata e come era conosciuta dal Muratori l'iscrizione non è completa poiché esisteva sulla stessa un'altra parola scritta in caratteri differenti, cioè: Autolycus.
Il Can. Vincenzo Lotti, che scrisse molto sulle antichità di Taggia e dintorni, si affacendò a sostenere presso l'Accademia delle iscrizioni a Parigi, che quella parola non fosse che una aggiunta posteriore fattavi in seguito a qualche fatto ivi avvenuto, volendo forse i liguri alludere a qualcuno che aveva loro tolto il castello o per inganno o per frode, giacché si sa da Ovidio come Autolico fosse un famoso ladro.
« Esotico è veramente quel Caminas che non si sa se sia un cognome di questo M. Valerio o nome patrio dello stesso; ma né sotto l'una né sotto l'altra significazione si trova nella lingua latina. Esotica poi sarebbe l'opinione di chi pretendeva che il soggetto di questa iscrizione fosse il personaggio dello stesso nome che figura in un fatto d'armi descritto da Tito Livio nella Deca IV lib. X.
L'anno 181 avanti l'Era Volgare Emilio Paolo, che era stato Console l'anno precedente, condusse la guerra contro i Liguri Ingauni. Questi, date buone parole sotto colore di venire ad accordi, fecero ad un tratto irruzione negli accampamenti romani, e se non riuscirono ad espugnarli, li tennero strettamente bloccati. P. Emilio credendo che il ritardo dei richiesti aiuti fosse cagionato dall'essere stati intercettati i suoi messi, e d'altra parte osservando che i Liguri di giorno in giorno rimettevano della primiera diligenza ed ardore, preparò una vigorosa sortita, nella quale affidò il comando di sei coorti ad un luogotenente per nome Marco Valerio, e la fazione ebbe il più prospero successo.
Che dalla vittoria di Giove eterno, invitto e dal restauro di un castello si abbia ad argomentare che qui si allude a tale avvenimento è una sciocchezza anche il supporlo; la lingua e l'ortografia della lapide sono ben lungi dal rappresentare una tale antichità che cederebbe appena appena di sei anni al celebre Senatusconsulto dei baccanali. E son persuaso
» dice lo stesso Prof. Sanguinetti « che anche la forma della scrittura (per chi se ne intenda un poco) debba smentire quella sognata antichità. »
Il Muratori nella cui gran mente tanta storia si volse e tante memorie si impressero, vedeva ogni cosa intuitivamente al suo posto e nel suo vero modo di essere, distingueva a tutta prima come stonatura ciò che non era autentico e si era tentato far avvicinare alla verità. Egli per primo ci ha fatto conoscere i suoi dubbi sulla autenticità di questa lapide.
Qualora essa fosse autentica potrebbe tutt'al più riferirsi a qualche fatto d'armi avvenuto nelle fazioni tra gli Ottoniani e i Vitelliani (circa 70 anni dell'Era Volgare) nelle quali il restauro d'un castello può avere giovato a tutelare un numero qualunque di quei piccoli che nella lotta coi grandi corrono rischio di rimanere schiacciati se non si aiutano in qualche modo da sé.
Ma le parole optimo maximo che in essa si trovano non furono mai dagli antichi romani adoperate per indicare qualità morali adattabili a persone né tanto meno agli Dei, ma esse erano invece solamente e semplicemente usate nelle descrizioni di grandi proprietà, specialmente negli atti di compra-vendita di fondi ove si usavano nello stesso modo come oggidì si usa dire: proprietà libera da ogni vincolo d'ipoteca, servitù o gravame di qualsiasi sorta.
Come mai si possono adunque adattare al Dio Giove?
Da tutto ciò risulta evidente che la famosa lapide romana del Castello di Arma è falsa per quanto può riferirsi alla storia romana, falsa per quanto si riferisce alla conoscenza della antica lingua latina; falsa per quanto riguarda lo studio e la conoscenza della paleografia (1).

Per approfondire l'argomento riguardante le lapidi rinvenute vedi questo documento (in PDF) della Società Ligure di Storia Patria, Genova.


Note:

  1. Anche in questo caso il Reghezza (e quelli che sostenevano le sue tesi) ha sbagliato grossolanamente, ma non poteva saperlo.
    La lapide non è un falso: essa è stata riconosciuta come autentica da diversi storici locali ed europei e datata da qualcuno al II secolo d.C.
    La lapide venne ritrovata sepolta durante gli scavi di fondazione della fortezza cinquecentesca e successivamente murata all'esterno contro la parete dove sorgeva la porta.
    Lo storico Vincenzo Donetti a proposito di "AUTOIYCUS" scrive:
    « Vocabolo di complessa decifrazione, posto in fondo alla lapide, forse come aggiunta, essendo i caratteri più incerti e meno eleganti, rispetto a quelli che compongono le altre parole. Si ritiene parola composta, derivata al greco, che starebbe a significare AUTOI=a se stesso, ma anche nel senso di "da sé", e YCUS=sufficiente, vale a dire "di sua iniziativa", oppure "d'impeto" ».

L'incisione è stata riconosciuta autentica da Theodor Mommsen Link esterno, il quale nel 1873, accompagnato dallo storico Girolamo Rossi Link esterno, ebbe l'occasione di esaminare la lapide, che allora era ancora murata sulla porta della fortezza. L'epigrafista tedesco riconobbe la lapide come autentica, ma non si pronunciò sulla datazione, inserì il testo nel V volume del "Corpus Inscriptionum Latinarum" (CIL), sotto il n° 7809, riportato da Massimo Ricci, studioso dell'Era Antica.
Per quanto riguarda "Autolycus" (o "Autoiycus") questa parola si trova (anche) su una epigrafe a Roma, nelle catacombe di San Panfilo: "D(is) M(anibus) / Iuliae Pa/ntherae / Ael(ia) Hermione / et M(arcus) Aeli(us) Autoiycus fece(runt)".
Le parole "Optimi maximi" sulla lapide sono riferite a Giove (in latino Iovis). Il Reghezza non conosceva, evidentemente, il Tempio di Giove Ottimo Massimo, noto anche come il Tempio di Giove Capitolino (in latino: Aedes Iovis Optimi Maximi Capitolini. Esso è stato il più importante tempio di Roma antica, situato sul colle Capitolino.

Infine, chi falsificò la lapide? I domenicani? Se venne rinvenuta nel 1564, in quale anno è stata falsificata? Perché mai qualcuno nel XV secolo avrebbe falsificato una lapide per poi sotterrarla? Per quale motivo? Non aveva di meglio da fare? Eppure quelli erano anni difficili, la vita era molto effimera, c'erano cose molto più importanti da fare e a cui dedicarsi, come, per esempio, sopravvivere alle incursioni piratesche...


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