Cap. 7
Per compiacere molti lettori aggiungiamo ancora alcune pagine sul precedente argomento.
Il prelodato cav. Carlo Cagnacci, nel citato opuscolo pubblicato in occasione delle feste millenarie di S. Benedetto celebrate in Taggia nel
1902 dice: « gli scrittori, divisi tra loro, vanno solo d'accordo nella gratuità delle asserzioni, e tutti, ad eccezione del P. Francesco
Rossi che fa derivare il cognome Revelli nientemeno che dai tempi dei romani, accettarono senza discussione questo cognome. »
E nell'opuscolo del Rossi F. edito in Bordighera nel 1877 leggesi (pagine 68 e 69) quanto segue:
« È da notare che sin dall'età latina aveva luogo per molte famiglie, ed anche per non pochi uomini illustri, il nome, l'antinome e
il sopranome; con ciò si ritenne anche col volgere dei secoli in tutta l'Italia. Donde il nome Revello, e poscia Revelli dato a
S. Benedetto. »
Ma queste son ciarle; tutti i documenti dei secoli VIII, IX e X ci dimostrano in modo evidente che i cognomi ancor non si usavano in
quei tempi; i veri cognomi, trasmissibili di generazione in generazione, cominciarono a usarsi più tardi; spesse volte erano
una derivazione del nome del luogo d'origine d'una persona, come appunto sarebbe il caso pel cognome Revello. Si tratterebbe or
dunque di decidere se tal cognome sia derivato dal nome del comune Revello che trovasi in Piemonte nel circondario di Saluzzo, o se invece
possa essere derivato dal nome di una delle tre borgate o frazioni di Tavole, la quale chiamasi appunto col nome di Revello. Ma
è certamente più probabile che il nome di questa località come quello di tante altre della vallata di Porto Maurizio o di Oneglia siano derivati
dai nomi delle famiglie che vennero ad abitarvi.
Il padre Massimino da Varallo, Archivista dell'ordine dei Cappuccini per la Provincia di Torino, ci scrive che i Saluzzesi rivendicano San Benedetto,
che vogliono nativo di San Front, borgata dell'alta valle di Po presso Revello; e ci fa osservare che in quelle parti le famiglie di questo
cognome sono numerose e sparse in più luoghi. Osserva ancora che San Benedetto può aver appartenuto all'antichissimo monastero benedettino di
Pagno (vicino a Saluzzo) prima di recarsi in Liguria.
Il documento più antico che oggidì esista in Liguria a riguardo di questo Vescovo d'Albenga è forse una lapide in pietra nera colla data del
20 agosto 1301, la quale trovasi in Albenga nella chiesa di Santa Maria in Fontibus, nella cappella di San Benedetto, nell'antico
sepolcro della famiglia Cazulini; inscrizione pubblicata nella citata Storia d'Albenga a pag. 385:
« MCCCI die XX augusti sepulchrum nobili domini romei cazulini et heredum suorum qui hanc capellam in honorem S. Benedicti dotavit
capellano tempore perpetuo missam omni die pro eius anima celebratur amen. »
Un'altra iscrizione pure esistente nello stesso luogo la riportiamo dalla pag. 391 dell'opera citata e si riferisce alla costruzione
dell'altare dello stesso Santo, che fu quasi contemporanea alla costruzione della cappella di S. Benedetto nella chiesa Parrocchiale di Taggia
(vedi Cap. VI):
Marmoris in tumulo requiescunt hic benedicti ossa beati cuius solvit tempora carnis mors annisque novecentun urbs haec nostra beata et
merito quem sibi pastor pontificalis electus fuit et aegris quascumque salutes concedebat enim munitus amore superno inter millinos
quatricentos atque novenos facta fuit translatio quinta luce decembris corporis eius qui nos protegat atque gubernet - Amen.
Nel già citato catalogo dei Santi di Filippo Servita leggesi il seguente elogio:
Benedictus in Ligurie ex honesta Revellorum familia natus apud Tabiae oppidum, ob hujus vitae probitatem et singulares virtutes Episcopus Albingani
creatur. Qui praeter in officio pastorali diligentiam miraculis etiam claruit: aegris enim variis morbis laborantibus sanitatem inter caetera
impetravit: cum autem annos aliquot ecclesiae suae laudabiliter sancteque praefuisset, circa annum salutis DCCCC migravit ab hoc saeculo.
Stando al Menologium Benedictorum S. Benedetto sarebbe invece uscito ex celebri Revellorum familia.
Da un antico libro posseduto dagli eredi di Stefano Rossi (professore di medicina nell'Università di Pavia, autore del poema Battista il grande
e di poesie in istile bernesco e in dialetto tabiese) ricaviamo le seguenti note: « Terra del licheo sino dall'anno 1644 ai
20 agosto acquistata da Francesco Reghezza per il prezzo di lire 1100 moneta longa, nella quale il medesimo spett. Stefano Rossi incominciò a
proprie spese a fabbricare l'oratorio di S. Benedetto Vescovo d'Albenga e patrono di Taggia.
Anno 1662 - Speso e dato in due volte pel pittore per l'ancona di S. Benedetto lire 128,10 e per altre spese par tavole, ferri e manifattura per la
porta dell'Oratorio L. 35. »
Riportiamo ora quanto leggesi nella Storia d'Oneglia del Pira edita nel 1847 (a pagine 50 e 51): « Sino a questi ultimi tempi si
conservò in Tavole l'antichissimo pallio accennato dai bollandisti e improntato coll'immagine del Santo avente la leggenda: S. Benedictas de
Revellis de tabulis episcopus albinganensis.
Antico e numeroso è quivi il casato Revelli, e trovansi nel 1300 delle persone di tal cognome che erano correttori del pubblico statuto di Valloria.
La Chiesa Parrocchiale di Tavole dedicata a N. Signora dell'Annunziata si staccò nel 1532 dalla chiesa matrice di S. Gervasio e Protasio di Valloria.
Monsignor Landinelli l'arricchì nel 1618 di un osso del corpo di S. Benedetto Revello Vescovo di Albenga ed oriundo di questo luogo. »
Anche Taggia ottenne dal Vescovo di Albenga alcune ossa di S. Benedetto, le quali si conservano nella chiesa Parrocchiale in un'urna di vetro
arricchita di ornamenti d'argento eseguiti nel 1790 a spese pubbliche i quali, pochi anni dopo, rischiarono di andar perduti in forza della legge
del 5 aprile 1798 che ordinava la requisizione di tutti gli ori ed argenti delle chiese e dei conventi, a vantaggio delle esauste finanze della
Nuova Repubblica Ligure.
L'apposizione dell'immagine di San Marco Evangelista nell'ancona di San Benedetto votata dal parlamento nella riunione del 26 Aprile 1625, è spiegata
dalla continuazione della stessa deliberazione:
« Il giorno di S. Marco la nostra milizia andò alla ricuperazione del loco di Bajardo e restò illesa nella furia delle moschettate quali
le furono sparate dalli nemici che occuparono detto loco e se lo difesero, e ognuno per Dio grazia se ne tornò a casa salvo, il che si può attribuire
a miracolo di Dio per intercessione di San Marco.
In riconoscenza del grande beneficio siamo di parere e vi proponiamo di deliberare in perpetuo la festa di detto Santo sotto la medesima pena come sopra. »
Ogni anno il 25 aprile nell'Oratorio dei S. S. Sebastiano e Fabiano si celebra tuttora la ricorrenza della festa di S. Marco Ev.
Fortunatamente non si mandò ad effetto la deliberazione presa in quello stesso giorno di distruggere tutte le case della località Colletto,
per la difesa del paese. Ma dell'importanza di questa località, parleremo in uno dei capitoli successivi.
Molti altri interessanti documenti illustrano gli avvenimenti politici del 1625 ma non possiamo per ora farne parola per non allontanarci troppo
dall'argomento principale. Vogliamo però fare ancora una osservazione sulla deliberazione del 26 aprile 1625 relativamente alla dichiarazione che
vi si legge riguardo all'ancona di San Benedetto, e cioè che questa dovesse eseguirsi senza alcuna arma particolare. Queste parole ci fan
conoscere che il popolo tabiese vedeva di mal occhio gli stemmi nobiliari o arme di famiglia, e tale antipatia era così radicata nel popolo che
aveva persino fatto dimenticare l'esistenza di un stemma proprio del Conume di Taggia, il quale stemma avrebbe potuto con decoro figurare degnamente
nell'ancona di S. Benedetto per esprimere il popolare voto deliberato dal Parlarmento tabiese in quella occasione.
Dai libri delle deliberazioni del Parlamento apprendiamo come parecchi anni prima si fosse solennemente decretato di cancellare tutti gli stemmi
particolari che si trovavano sulle pareti delle varie cappelle della Chiesa Parrocchiale allo scopo di abolire per sempre tale abuso.
In tal modo il popolo tabiese precorreva di due secoli lo spirilo della rivoluzione francese la quale in omaggio al principio di assoluta e perfetta
uguaglianza degli uomini ordinava per legge la cancellazione di tutti gli stemmi nobiliari. Tale odio contro l'invadente moda degli stemmi di
famiglia portò per conseguenza l'assoluta dimenticanza dello stemma comunale, cosicché quando si volle disegnarlo sulle nuove mura della città
si adottò una barocca riforma di esso, coll'inscrizione sui quattro angoli dello stesso le lettere S. P. Q. T., le quali, per una certa somiglianza
colle lettere S. P. Q. R. dello stemma di Roma, dovevano avere il significato delle parole Senatus Populus que Tabiensis.
Ma non esiste una particolare ragione per giustificare tale inscrizione nello stemma di Taggia in
luogo di quella prima esistentevi: T. A. B. Y. A.
Molte furono le città e i paesi che come Taggia ebbero un Parlamento, un Consiglio di Anziani, dei Consoli, dei Sindici o altri rappresentanti del
popolo, ma da tutto ciò è ben lontano il senso vanitoso e superbo del Senatus Populus di Roma.
Troppo esagerato è poi lo sforzo di coloro che vogliono far risalire l'origine di tale inscrizione ad antichissima epoca molto incerta e dubbia
in cui Taggia sarebbesi costituita in Comune indipendente. Tutto ciò non è provato da alcun documento né
da alcuna storia o cronaca antica, ed è effetto di supposizioni nate nella fervida fantasia di moderni scrittori guidati solo da un esagerato
stimolo d'amor patrio e trasportati dal desiderio di illustrare facilmente il proprio paese.
Altre città modificarono l'antico loro stemma, ma tali modificazioni furono dettate da speciali motivi e giustificate da importanti riforme
occasionate dagli avvenimenti politici registrati dalla storia.
« Così il Comune savonese ebbe sino dai tempi marchionali il suo stemma, consistente in uno scudo partito da tre fasce o bande, vermiglie
ai lati, bianca nel mezzo, sormontato dalla corona marchionale. Allorquando il Comune prese risolutamente parte d'impero, e cioè dopo il mille,
lo scudo fu improntato della mezz'aquila ghibellina nascente e coronata in campo d'oro posta nella parte superiore all'altezza di circa due terzi
dello scudo medesimo » (Bruno. Storia di Savona, pagine 69 e 31).
Oneglia dopo che nel 1576 fu ceduta dalla famiglia Doria al Duca Emanuele Filiberto, aggiunse nella parte superiore del suo stemma la croce
bianca su campo rosso, insegna della nuova dominazione del Duca di Savoia, e lasciò nella parte inferiore l'antico stemma coll'albero.
Sanremo aveva anticamente nel suo stemma un leopardo rampante in campo rosso. Tale appare dal sigillo d'una lettera in data 17 agosto 1549
spedita dal Podestà di Sanremo Antonio Vignolo a quello di Taggia. Ma nel secolo XVII questo stemma era modificato; al leopardo fu
sostituito il leone rampante appoggiato alla palma. Non fu forse estranea a tale modificazione la concessione del privilegio della provvisione
delle palme fatta da Papa Sisto V al sanremese Bresca in seguito al noto episodio sull'erezione dell'obelisco sulla Piazza S. Pietro in Roma,
nell'anno 1586.
Ma, riguardo allo stemma di Taggia, non esiste alcun particolare motivo che giustifichi la sostituzione delle lettere S. P. Q. T. a quelle che
più anticamente vi si leggevano T. A. B. Y. A.
Quale fosse il vero antico stemma di Taggia è provato dai disegni che di quello si trovano sulla prima pagina di alcuni antichi registri,
come pure dalle impronte lasciate dal sigillo del Comune sulle numerose lettere inviate ai comuni vicini, al governo di Genova, all'Ufficio
del Banco di San Giorgio. Un bello e nitido esempio si osserva sopra una lettera in data 7 settembre 1507 inviata ai consoli di Badalucco e
rinviata con relazione di notifica scritta dal notaro Giorgio Boeri.
Sull'impronta che il sigillo ha impresso sulla carta addossata alla ceralacca si leggono chiaramente le lettere t. A. b. y. A.; la lettera b
è situata nel mezzo dello stemma e cioè nel centro della croce, ed è adornata da due piccole croci, una per ciascun lato, che a guisa di punti,
indicano un'abbreviazione di parola. Nelle antiche scritture usavasi frapporre a due o quattro punti la lettera iniziale che rappresentava il
nome di qualche autorevole personaggio: Vescovo, Doge, o Re. Quelle cinque lettere, mentre indicavano chiaramente il nome della città e ne
distinguevano lo stemma da quello di Albenga, rappresentavano pure una invocazione religiosa la quale non era certo estranea alla tradizionale
divozione e venerazione che il popolo tabiese aveva ed ha tuttora pel Crocifisso. Ancora se ne conserva uno nell'Oratorio della Confraternita
detta dei Bianchi, che la tradizione vuole sia quello stesso che già apparteneva agli antichi frati benedettini di S. Maria di Caneto.
Una chiara descrizione dell'antico stemma di Taggia, con spiegazione dell'interpretazione assegnata alle cinque lettere, si ricava dal già citato
Cartolario delle spese del Comune:
MCCCCXXXVIII die XXXI Januarii...
Item ea die in Ramondino Boerio in factura de una banderia soldorum quinque seu s. V.
Item pro faciendo alia banderia cum Insignis armorum tabie cum literis t.a.b.y.a. soldorum XV.
Item in sorore Magdalenete pro scribendo in dicta banderia dicta invocatione te altissimum benedictum yesus adoremus... soldorum III denariorum
VI seu s. III d VI.
Non si può precisare in quale anno sieno state fatte queste bandiere, perché trovansi insieme confuse alcune spese fatte nel 1436 in occasione dell'assedio
di Albenga con altre fatte nel 1438 in occasione degli armamenti contro i Catalani.
Le invocazioni, come i gridi di guerra, erano una necessità per gli eserciti e pei popoli, come oggidì lo sono i canti patriottici e gli inni nazionali.
Erano sempre inspirati a sentimenti religiosi perché quasi tutte le guerre dei primi tempi del medio Evo trovavano la loro giustificazione nella
difesa dei diritti della religione.
Nell'anno 732 quando i Saraceni, passati i Pirinei, minacciarono tutte le Gallie, Carlo Martello
corse loro incontro e benché i suoi guerrieri
fossero in numero assai inferiore, fiduciosi della santità della loro causa, attaccarono i Saraceni al grido di: Crux, crux vincit! E con lo
slancio di quella fede incrollabile che essi riponevano nell'assistenza del Dio degli eserciti, dopo lunga e accanita lotta vinsero le numerose orde
di Saraceni, salvando così la Francia e l'Europa tutta dalla barbarie (Cris de guerre et devises. Conte de C. Paris 1853).
Nell'anno 1099 accorsi i crociati in Palestina all'appello di Pietro d'Amiens ,
detto l'Eremita, essi combatterono contro i feroci mussulmani
sempre animati dal grido: Dio lo vuole! Dio lo vuole! Ierusalem, Ierusalem. E nella crociata del 1146 qual era il grido che nei combattimenti
animava i cristiani contro gl'infedeli: Christus vincit! Christus regnat! Christus imperat!
Albenga inviò le sue galere alla Santa impresa, ed il suo stemma dalla croce rossa su campo d'oro sventolò gloriosamente sui campi della Palestina, come lo provano
i privilegi conceduti agli Albinganesi dal Re Baldoino
nel 1109 e confermati dal Conte Beltramo (Rossi. Storia d'Albenga, pag. 106).
La perfetta somiglianza dello stemma d'Albenga con quello di Taggia ci dimostra che i tabiesi (e gli armesi) si recarono anch'essi (ma non ci sono prove certe)
nella Palestina riuniti sotto le stesse insegne degli Albinganesi... (forse). E chissà che la invocazione a Gesù, forse già scritta sugli stendardi
dei Tabiesi, non abbia in allora echeggiato su quei gloriosi campi di battaglia?
In quei tempi di zelo e di entusiasmo per la fede e per la religione, non mancarono certamente al forte appello i numerosi montanari di Triora, eccitati
dalle fervorose esortazioni dei frati benedettini stabiliti su quel vasto territorio. Essi accorsero nella Palestina a combattere a fianco degli altri diocesani
Albinganesi, riportandone anch'essi la terribile malattia della leppra (lebbra). È per questo che Triora ebbe un antichissimo leprosario (lebbrosario)
del quale ci conservarono notizie gli atti dei notari (vedi per es. gli atti di Antonio Oddo del 1543); Albenga aveva pei suoi leprosi (lebbrosi)
l'ospedale di San Lazzaro.
Risulta da un documento del 1129 che Albenga aveva i suoi consoli per amministrare la giustizia; e il Muratori narrando dell'assedio di Como fatto dai
Milanesi nell'anno 1127 dice che i Milanesi ebbero forti soccorsi da Pavia, Novara, Vercelli, Asti, Alba, Albenga, ed altre città; da che (dice lo stesso autore)
si scorge, come tutte queste città vivevano a repubblica, né più erano governate da ministri imperiali. Ma nulla risulta di Taggia, che d'altronde, essendo risorta dal 980
non poteva ancor avere un gran numero di abitanti, tutt'al più 100 fuochi (100 famiglie). Taggia era allora occupata dai Conti di Ventimiglia insieme
a Bussana, Arma, Badalucco, Montalto, Carpasio, TRiora, e solo nel 1140 passò ai Clavesana.
Nell'anno 1808 gli amministratori del Comune di Taggia ricevettero vive rimostranze dalle superiori Autorità perché ancor sussisteva sulle mura della città uno stemma,
mentre per legge già dovea esser stato cancellato. Fu osservato essere quello l'antico stemma di Taggia, ma si obbiettò esser pur necessario farlo
riconoscere sottoponendolo prima all'approvazione d'una Commissione Araldica. Un pittore tabiese, Gio B. Oggero del fu Antonio, venne incaricato di eseguirne il disegno.
Fu questi un giovane di belle speranze, che non potè far conoscere e sviluppare i suoi talenti essendo morto a 33 anni. Nel concorso aperto nel 1812 da Napoleone I per
dipingere il Palazzo Comunale di Sanremo, fu prescelto con molte lodi il disegno presentato dall'Oggero (come si sa in allora la Liguria trovavasi
dal 1805 incorporata alla Francia, e vi rimase sino al 1814 epoca della caduta di Napoleone). Dopo varie critiche e correzioni lo stemma di Taggia venne approvato
e inscritto sui registri di Araldica nella forma in cui vi si trova tutt'ora rappresentato, e cioè con « croce rossa su campo d'oro »
uguale perciò a quello di Albenga e di qualche altra città d'Italia.
In qual epoca e da chi fu disegnato lo stemma sulla porta di Taggia ? Leggiamo nella cronaca del p. Calvi: « Circa l'anno 1540 essendo i Tabiesi
in gran terrore per le incursioni dei Barbari, pensarono di circondare la loro città di mura, e infatti cominciarono a provvedere alla parte più
pericolante che era verso il Borgoratto, dove sta ora la porta dell'Orso, sopra la quale si vede dipinta un'immagine della B. Vergine col figlio in
grembo come protettrice della città e dai lati le insegne della Ser.a Repubblica e della città di Taggia, e sotto un piccolo stemma con aquila bianca
e le sigle P. C. M. le quali significavano: Paulus Cicada Montisleonis, che era pretore di Taggia mentre si facevanp dette mura ».
Dalla nostra « Serie dei Podestà di Taggia » ci risulta che Paolo Pantaleo Cicada fu podestà nel 1546. Trovasi per lo più indicato col
nome di Cigala; ma lo stemma dei Cicala è « d'oro con sei cicale » mentre quello dei Cicada, ricavato dal sigillo trovato sulle lettere
d'un Cicada, Vescovo d'Albenga (1545-1572), ci risulta essere un'aquila, come spiega il Calvi.
È dunque a tale data che devonsi riferire quelle pitture, eseguite molto probabilmente dal pittore Francesco Brea di Nizza, il quale visse parecchi
in Taggia con la famiglia. Leggesi infatti nella citata Cronaca, che nel 1538 egli aveva dipinto la libreria del convento. Anzi il canonico Lotti
trovò nel banco d'una bottega una pagina d'un libro delle spese e introiti del convento (venduta con altre carte antiche dal Priore dei Domenicani!)
nella quale, fra le altre note, riferentisi tutte all'anno 1538, si leggevano le seguenti:
In magistro Francisco Brea de Nicia pro medietate anchone scuta decem librarum 103 et sold. 10. Item pro solutione magist. Francisc. Brea pro
complemento solutionis anchone lib. centum tres cum dimidio.
Nei successivi anni questo pittore accudì per conto del Comune all'esecuzione delle pitture del Nuovo Palazzo Comunale e del Crocifisso nella chiesa Parrocchiale.
È naturale quindi ch'egli sia pure stato incaricato dell'esecuzione delle pitture sulle nuove mura della città. Riportiamo quanto leggesi al
riguardo, nei registri delle spese essendo massaro Eduardo Curlo:
Anno 1543 die 5 octobris. Magister Franciscus Brea pictor pro dicto Edoardo infra solutionem cricifixi fiendi pro ecclesia et picturar in palacio...
L. XVI s. XII. Anno 1544 die 29 augusti. Magister Franciscus Brea in eius mercede pro manifactura crucifixi positi in ecclesia lib. XIII s. VI d. VIII et in
manifactura picturar factar in palacio lib. XII s. VI d. VIII de acordio cum dominis ancianis anni presentis... L. XXV s. XIII d. IV Anno 1544 die 29 augusti.
In magistro Francisco Brea pinctore lib. II sold. VI denarior. VIII computatis lib. I sold. VII denar. IV pro una accusa eius fili. Lib. 2; 6; 8.
E risulta dai protocolli del notaro Giobattista Ardizzoni che lo stesso pittore Francesco Brea di Nizza, unitamente a Giovanni Cambiaso di Polcevera,
mediante due atti dello stesso giorno 4 febbraio 1547, si assumevano l'incarico di dipingere la chiesa di S. Maria di Caneto, e di fare il quadro della
Risurrezione di Gesù nella chiesa Parrocchiale. Questo quadro tutt'ora esiste collocato dal 1851 in fondo al coro della stessa chiesa; è pregevole
perché non si conoscono con certezza altre opere di Giovanni Cambiaso (Descrizione di Genova ecc. ecc. Volume III pagina 38).
Le pitture di S. Maria di Caneto furono nel 1780 cancellate dal vandalico pennello di un imbianchino! Alcune però furono rimesse in vista.
Tutti questi lavori attribuivansi prima d'ora esclusivamente a Luca Cambiaso, ma gli atti da noi scoperti, e pubblicati dall'eg. G. Bres di Nizza,
studioso e diligente autore di varie pubblicazioni, tolgono ogni dubbio al riguardo. Luca Cambiaso solamente collaborò coi predetti pittori, mentre
aveva appena venti anni (Bres, Notizie Varie, Nizza, tip. del Commercio 1909).
Furono probabilmente anche opera di questi tre pittori gli affreschi che decoravano due facciate del palazzo Pasqua, ora Curli, in via Pantano
rimpetto al Palazzo Municipale.
Sulle opere di questi e d'altri pittori esistono certamente altri interessanti documenti, ma non è tanto facile farne la ricerca e pubblicarli
stante le difficoltà frapposte da parte delle Amministrazioni, le quali temono forse che i documenti, a cagione della loro preziosità possano
essere convertiti in danaro contante e perciò asportati dall'Archivio Comunale.
Riportiamo ancora le seguenti note riferentisi alla storia delle porte:
Anno 1540. Item solupto pro fabrica porte prope domum bapte Noario... (Si riferisce alla porta detta del Paraxo o a quella detta di Santa Lucia,
vicino alla piazzetta già fin d'allora chiamata « piazza Doria »):
Anno 1544... tabula pro porta gombi lib. 2 sold. 16. Item pro porta ursi librarum I soldorum 16. Item pro facienda porta confrarie lib... Item
pro consteo tabulis quatuor largh. et alias res pro fienda porta trinitatis lib. 3 sold. 16.
Sulla porta delle Confrarie fu dipinta l'immagine di Sant'Andrea in ricordo della vittoria dei Tabiesi riportata contro gli Spagnuoli il 30 novembre
del 1526. Si era anzi già costrutto un oratorio dedicato a questo Santo. Ma per la difesa della città, si dovette distruggerlo quando si costrussero
le mura. E nel secolo XVIII quando Paolo B. Curlo costrusse il grandioso palazzo, detto poi dei Marchesi Spinola, questa porta delle Confrarie fu
distrutta e rifatta più a oriente, verso il fiume, e fu detta porta Callegaria. È solamente in questa occasione che si disegnò nella nuova porta
l'immagine del nuovo Patrono di Taggia, San Benedetto. Questo fatto ci fornisce ancora un'altra prova su quanto già dicemmo relativamente alla pretesa
tradizione su San Benedetto se prima del 1620 (data che si leggeva sull'antica porta delle Confrarie) fosse esistita quella tradizione, e se
il popolo tabiese avesse già creato la leggenda della comparsa del fuoco che fece allontanare i Saraceni,
si sarebbe certamente già fin d'allora dipinta l'immagine del Santo Vescovo d'Albenga sulle mura di Taggia, e non si sarebbe dovuto lasciar nell'oblio
Sant'Andrea pel quale già tanta divozione si era manifestata dopo la miracolosa vittoria riportata dai tabiesi contro i soldati spagnoli nel 1526.
La favola dei Saraceni
L'invenzione di quella leggenda è derivata da una errata interpretazione dell'uso di accendere nelle vie e piazze della città, molti fuochi e falò,
nei giorni che precedono la ricorrenza della festa di San Benedetto. Ma in realtà, l'accender tali fuochi è semplicemente la continuazione di una
antica usanza assai diffusa in Italia, che praticavasi ogni qualvolta si volevano far pubbliche manifestazioni di gioia, in occasione di qualche fausto
avvenimento. Citiamo al riguardo le gride pubblicate nel 1467, nel 1468, e (pel trattato di pace di Castel Cambresis) nel 1559.
...se debiano fare feste e processioni tre die continuo con falodi e soni di campane in demostrazione de alegreza - ...volumus gaudium vestrum
declaretis et processionis per triduum cum falodijs et amenis sonitibus campanarum faciatis - ...gaudium hoc celebrari hic apud nos cum triduanis
falodiis et sonitibus campanarum - ...fare segni estrinseci de leticia et allegrezza con fuochi... per trei giorni un presso l'altro sopravenendo la sera...
E nei registri delle spese leggonsi le note seguenti:
Anno 1466... in lignis emptis pro ipsa occasione faciendo falodia in signum victorie domini ducis S. VIII.
Anno 1491 die VI iullij... pro lignis causa faciendo confalodia serenissimo Rege Francorum sold. IV den VI.
Anno 1517... pro lignis emptis pro foco facto in plateis... de ordine ancianorum... ex precepto Ill° do. Gubernatore propter gaudium habitum...
Quando per la prima volta si solennizzò in Taggia la ricorrenza della festa del nuovo Patrono San Benedetto e cioè nel 1626, si ordinò, secondo l'uso
di accender fuochi o falò nelle vie e piazze della città per tre sere consecutive. Ma il popolo che sempre ama il grandioso e il fantastico, non potè
addattarsi a credere e a lasciar credere che tali fuochi fossero fatti semplicemente per manifestare esultanza in occasione della festa, ond'è che
volle creare la leggenda della comparsa del fuoco agli occhi dei Saraceni.
Ma quando avvenne mai un tal miracolo ?
Non certo nel 1625, poiché, come si sa, Taggia si arrese subito al Duca di Savoia, come si arresero tanti altri paesi e città della Liguria. Neppure
avvenne in epoca posteriore, poiché non si ebbero più visite di Corsari, dopo che fu costrutta la torre in Arma, provvista di buone artiglierie,
con guardia continua. E neanco si può pretendere che tal miracolo fosse già avvenuto prima del 1625, poiché come già dicemmo, del Santo Vescovo
d'Albenga, ben poco se ne sapeva, e quasi non se ne parlava. Il padre Malabaila mise subito in dubbio ch'Egli avesse appartenuto all'ordine dei
Benedettini, e tal dubbio perdura. Ci venne anzi riferito che fu persino cancellato dall'elenco dei Santi, e che solo per merito del Can. V. Lotti
vi fu nuovamente inscritto, essendosi il detto canonico molto affacendato in tal occasione per far ricorsi e memoriali, onde riuscire nel lodevole
intento. Eppure - chi lo crederebbe! - il buon Canonico, che amava tanto di illustrare le glorie di Taggia, e che aveva il ticchio di scrivere il suo
nome negli antichi scartafacci qualificandosi per archeologo, si vide proibire, per invidia e dispetto, di prender visione degli antichi documenti
dell'Archivio comunale! Sempre si somigliano queste comunali amministrazioni!!!
Una importante osservazione, finora sfuggita agli scrittori che trattarono di San Benedetto, è la seguente. È accertato da un documento del 980 (del
Registro dell'antica Curia Vescovile di Genova), che Taggia e Sanremo furono interamente distrutte dai Saraceni, restando così i loro territori, privi affatto di abitatori.
Crederemmo adunque, che a tante distruzioni non sfuggisse la stirpe ex celebri Revellorum familia. Eppure, a quanto si dice, sembrerebbe che la
genealogia dei pretesi parenti del Vescovo Benedetto, non rimanesse interrotta in quell'epoca disgraziata! Ma è possibile che ciò sia vero? Se
veramente i Revelli fossero scampati a tanto disastro, non avrebbero certamente dimenticato di tramandare ai posteri, di generazione in generazione,
tanta gloria, tanto miracolo! Si risponderà forse che una tradizione esiste? Ma la vera tradizione deve essere continua, cioè senza interruzione, e non
è possibile ammettere che una tradizione sia sorta in ritardo, o che essa sia rimasta interrotta, o nascosta per secoli e secoli, e poi ripigliata,
poiché sarebbe stata necessaria l'esistenza di sufficienti documenti che avessero potuto ricostituirla dopo tanti secoli di assoluto silenzio. Invece, tutti
i documenti esistenti, e altre tradizioni, e indizii, sono concordi per dimostrarci che quella pretesa tradizione non esisteva in Taggia.
V'è nel Piemonte una certa famiglia Rogery, oriunda di San Front di Revello, la quale per tradizione vanta parentela col predetto Vescovo d'Albenga.
Questa tradizione è in aperta opposizione con quella di Tavole e di Taggia, sia pel cognome che pel luogo di nascita del Santo Vescovo.
Un documento del 979 (pure pubblicato nel Liber Jurium R.G.) ci dimostra che Teodolfo Vescovo di Genova cominciò (dopo che furono scacciati i Saraceni)
a ripopolare queste deserte regioni concedendo in affitto, varii terreni situati su questi vasti territorii, a circa 43 famiglie, fra le quali però,
non se ne trova alcuna che abbia nome Revelli, o si dica parente del Vescovo d'Albenga. Queste in gran parte, dall'origine dei loro nomi ci sembrano famiglie
di longobardi.
Le "fandonie" dei tabiesi non reggono più...
Eppure fu detto che Taggia era potente in quell'epoca; che ebbe i suoi Consoli, che si governò a Repubblica, che scacciò i Saraceni da
Castel San Giorgio e dalla grotta di Arma...(meglio sarebbe stato che non li avesse lasciati venire! Poteva ben opporsi prima di lasciarli qui stabilire!).
Non si capisce però come potesse aver tanta potenza, dal momento che, a cagione delle invasioni e distruzioni dei Saraceni v'erano dappertutto ben pochi abitanti.
Noi preferiam credere ai documenti, e se gli scrittori di cose locali asserirono tante notizie contraddette dai documenti, possiamo poi a ragione dubitare di quanto essi asserirono e propalarono a riguardo di San Benedetto Vescovo d'Albenga.
Non abbiamo potuto consultare la « Storia della Chiesa in Piemonte » del Canonico Tommaso Chiuso, nella quale trovasi menzione del Beato
Benedetto da Revello Vescovo d'Albenga (Vol. I pag. 202) né le opere del Can. Pier Giacinto Gallizia; speriamo che altri possa studiare a fondo tal
questione, onde sciogliere ogni dubbio al riguardo, e schiarire in modo evidente la verità.
Da quando il Reghezza ha scritto queste righe sono trascorsi più di cent'anni, eppure nessuno, finora, ha "studiato a fondo" né ha "chiarito", a
quanto ci risulta, né ha potuto contraddire con documenti storici alla mano quanto da lui trovato e scritto!
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