Capitolo 2 parte 1
Gli antichi itinerari romani, dopo il Lucus Bormani, e prima di Albentimilium, segnano lungo la via Emilia o Julia
Augusta, la stazione di Costa Balenae o Costa Bellene. Già Cluverio aveva fissata l'ubicazione della Costa Balenae, presso
la foce del fiume Capreolus, altro dei nomi della fiumana di Taggia, e, malgrado qualche dissenso, la maggior parte degli
eruditi avea fatto plauso alla sentenza del dottissimo geografo.
Nell'anno 1839, in occasione dei lavori di sterro della strada provinciale, nel punto appellato di S. Siro, e, volgarmente
il Don, vennero alla luce rovine romane e pregevoli oggetti di antichità. Con monete romane, da Augusto a Costantino, se ne
rinvennero pure alcune arabiche e talune genovesi, le quali ci fanno chiaro, che, nel cuore del XIII secolo, era ancor battuta
e frequentata questa rinomata via. Ed a breve distanza si scoprivano le traccie di un piccolo molo, presso del quale si scaricava
il Tavia fluvius, lavoro che il canonico Lotti, da Taggia, giudicò contemporaneo alla Costa Balenae, la quale dovea sorgere nello
stesso luogo sulle cui rovine venne edificata posteriormente la Villa Regia (1).
Tali scoperte tolsero ogni dubbio ed, oggidì, non è più controversa l'ubicazione della Costa Bellene e gli studi più recenti la
fissano nel territorio di Riva Ligure (2).
Gli ultimi avanzi della romana civiltà, sfuggiti, in Liguria, alla ruina delle genti latine, scomparvero colla invasione di Rotari
e colle successive scorrerie dei Saraceni.
Gli antichi compascui, o agri vicinali, esistenti tra le marche, od anche tra i contadi, per lo spopolamento e l'abbandono,
rimasero deserti. Erano tali agri vasti possessi e la loro origine dee ricercarsi nella natura dei confini, i quali, anticamente,
erano compascui e comuni fra i diversi popoli (nel senso di tribù o comunello), ma poi, specialmente, nelle grandi divisioni
di monti e fiumi più rilevanti, passarono in dominio dei re e degli imperatori, per una specie di legge regia, o per una multa di
ribellione, poi, andarono ancora negletti, sempre più, nel grande spopolamento d'Italia ed imbarbarirono nello incrociarsi delle
ripetute invasioni (3).
A tale stato di cose si rimediò, in parte, colle donazioni che, di tali agri, passati in patrimonio del fisco, si fecero ai vescovi
ed ai monasteri.
Fra questi agri confinali, era la Villa Regia e, dentro la cerchia di essa, il fondo Porciano, al quale si riferisce la donazione
della contessa Adelaide di Susa. La Villa Regia fu, in origine, assai vasta, come vedremo, ed il fondo Porciano non era che una
parte di essa. Cade, ora in acconcio l'esame dei documenti, relativi a Villaregia. Parleremo, anzitutto, della donazione di Adelaide
di Susa, del 1049, confermata nel 23 febbraio 1169, dai marchesi Guglielmo e Bonifacio, di lei pronipoti. Prima di prendere tali atti
in esame, crediamo pregio di questa memoria preoccuparci dell'accusa di falsità, che, contro di essi, ha lanciato l'avv. Fossati,
nella sua controrelazione.
Sono troppo gravi, per Taggia, le risultanze di tali documenti, di qui il misero espediente di allegarne la falsità. A riguardo della
donazione di Adelaide, furono sollevati dubbi sulla data, che taluno riportò, invece all'anno 1029, ma nessun scrittore autorevole ne
ha mai impugnata l'autenticità. Non il Rossi (4), non il Pira (5),
non il Guichenon (6),
non il Lancellotto (7), non il San Quintino (8),
non il Terraneo (9), non il Federici (10), non il
Muleti (11), non il Vustenfeld (12), non il Desimoni
(13), il quale così ne
parla: «...la data del documento è certamente erronea, perché ivi la donatrice si dice moglie del duca Ermanno, il che non può
essere che tra il 1036 e il 1038, ma tale data sarà un trascorso di penna, perché nel resto la carta ha tutti i caratteri della
sincerità, ed è poi confermata, almeno in genere, da altro atto del 1169 ecc.». Dunque nessuna falsità nei due documenti e non si
debbono fare le alte meraviglie, per la conferma, come di atto inutile ed inesplicabile, poiché di ogni donazione o stipulazione
importante, i monasteri e chiese soleano procurarsi la conferma, dai successori dei donatori.
L'atto di donazione, del 1023, dal vescovo Adalberto, alla chiesa di S. Nicolo di Diano, fu, successivamente, confermato dai vescovi
Ottone, Lantero, Arnaldo e Trucco.
Ma l'avvocato Fossati trova un elemento di convinzione, in un asserto compenso di lire venti di argento, che i due marchesi fratelli
avrebbero ricevuto, per addivenire a tale conferma. Se ciò fosse vero, nulla di strano vi sarebbe in tal fatto, troppo numerosi essendo gli esempi
di siffatte estorsioni, in que' secoli di prepotenza. Senonché, basta leggere il documento per convincersi dell'abbaglio gravissimo in
cui è caduto il difensore di Taggia.
L'atto consta di due parti, la prima, che è la più lunga, riferisce, quasi integralmente, il testo della donazione di Adelaide, la seconda,
brevissima, contiene la conferma: Quam cartam donacionis et offersionis nos Willelmus et Bonefacius predicti marchiones corroboramus
et confirmamus... e di compenso non v'è parola. L'avvocato Fossati ha ritenuto, come compenso della conferma, una penalità di lire venti,
comminata da Adelaide, a chi volesse attentare alla donazione... Si ipsa vel heredes... contra hunc cartam offersionis... impedire
temptaverit... muleta que et pena auri optimi libras viginti argenti ecc.
Ecco dimostrato l'errore.
Del resto, nella lettera di papa Innocenzo II, del 16 giugno 1135 a Giovanni, abate di S. Stefano, che il Semeria cita colla data del 1136,
è già ricordata la donazione di Adelaide, ex donatione Adelasiae comitissae, e così, pure, nella lettera del 4 febbraio 1186, di Urbano III,
all'abate Guidone, per non parlare di altre lettere più recenti.
Dissipati, in tal modo, i sospetti di falsità, messi innanzi ad opportunità di difesa, esaminiamo i termini con cui è concepita la donazione,
correggendo, colla scorta del testo, trascritto dalle pergamene dell'abbazia di S. Stefano (14), gli errori contenuti nella lezione, riportata
nel volume II chartarum (15).
Adelaide dichiara di far donazione al monastero di S. Stefano... de omnibus rebus iuris mei quam habere visa sum in loco et fundo Porzani ubi
nuncupatur Villa regia...
hec sunt casis campis... ierbis siluis pascuis etc. fra i seguenti confini... ab una parte fossatus de pompliana qui pergit in mare,
de alio latere terra sancti syri que est ipsius monasterii, de superiori capite alpe bocallo, de subtus adiacet litus maris.
Il documento è chiaro. Anzitutto, appare che la contessa Adelaide non dona tutta Villaregia, ma solo quanto possiede nel fondo Porzano; fra i
confini specificati, il quale fondo faceva parte di Villaregia. Questo documento e la successiva conferma del 1196, accertano un fatto
importantissimo. I monaci di S. Stefano aveano già in quei luoghi, possessioni, poiché uno dei confini consiste nella terra Sancti
syri que est ipsius monasterii. Molto probabilmente ivi doveva già esistere qualche stabilimento monacale. E ciò è logico. La contessa Adelaide,
nota nella storia per molte altre consimili liberalità, dimorante, allora, in Albenga, fu certamente spinta a far donazione, al monastero
di S. Stefano, piuttosto che a qualsivogìia altro monastero ligure, compresi quelli situati in Albenga e suoi dintorni e noti assai, dal fatto
che, in prossimità dei suoi fondi del Porciano, era già sorto uno stabilimento dei monaci di S. Stefano. E tale supposizione, così logica e
naturale, trova largo suffragio in gravissimi documenti, sui quali è pregio dell'opera, intrattenerci.
La chiesa di Genova, o, come si diceva allora, di S. Siro, possedeva molti beni, nei dintorni di S. Remo e Taggia.
Anzitutto ci si presenta l'atto con cui Teodolfo, vescovo
di Genova, ritenuto che le res nostre ecclesie, furono devastate dai saraceni e così le chiese, poste nei confini matuziani e tabbiesi,
ne fa donazione, per tre quarti parti, ai suoi clerici, e cardinali (anno 980) (16). Una parte, di tali beni, fu chiesta, da vari coloni,
in livello e Teodolfo ne fece concessione, ad essi, con atto del marzo, dell'anno 979. Questi beni, lasciando da parte quelli concessi ad
altri coloni ed occupandoci, soltanto, di quelli, assegnati ad un Giselberto e figlio, erano in loco et fundas Tabiae,
cioè nella regione bagnata dalla Taggia; la parola fundas, risponde
al finibus del documento precedente, e alle conractis tabie, che vedremo ricordate in atti posteriori.
Nella donazione del febbraio 1038, fatta da Corrado di Ventimiglia, a Corrado, vescovo di Genova, si ricordano:
omnibus rebus iuris sancti syri ianuensis ecclesie et sancti romuli que sunt positas... in locis et fundas sancti romuli,
a confini, aquae armedani usque in colla de gumbenio (17).
Se Taggia non vuol pretendere di essere esistita, prima, della creazione del mondo, è giuocoforza riconosca che il
fiume Tavia o Tabia, avrà dato il nome ad essa e alla regione circostante, come il flumen Alme, o Almea, o Armeano, deve
averlo dato ad Arma. Dunque fundas tabie è la regione circostante al fiume Taggia, e, difatti, i beni, concessi a livello, sono situati,
parte nel luogo di Taggia (in loco), parte in fundas... seu in porzano et pertuso, due luoghi che qui appaiono evidentemente
diversi, e, perciò, ben distinti.
Non sarà vano osservare che questi documenti non accennano, ancora, ad una signoria politica, come acutamente, rileva il Belgrano,
nella sua illustrazione del registro arcivescovile di Genova. La signoria politica, sorse più tardi, in S. Romolo e si assodò, dopo
la donazione di Corrado, conte di Ventimiglia, del 1038. Teodolfo parla soltanto di res, che, in quei confini nostre ecclesie subiacebant.
È necessario che noi insistiamo su questi documenti storici, nonché su altri successivi, poiché essi varranno a scalzare tutto il fondamento
della tesi avversaria, con sottile artifizio, esposta dall'arbitro di Taggia. Teodolfo fa grande benefattore dei benedettini. Fu egli che, prima
del 965 (18), chiamò i monaci di S. Colombano a Genova e diede loro la chiesa di S. Stefano, che fu il primo monastero benedettino, in Genova.
A questo monastero, Teodolfo e, dopo di lui, i successori, nel vescovato, Giovanni II e Landoilfo fecero cessione delle res iuris sancti syri, in Porzano, Villaregia e S. Remo,
mediante la solita prestazione livellaria, esempio seguitato dai privati, concessionari di S. Siro, fra cui un Vitale, con atto del novembre 1069
(19).
Tutto ciò è attestato da gravi autori e da ineccepibili documenti.
La carta del 1028, ricordata dal comm. Girolamo Rossi, nella sua relazione, ne è una prova eloquente. Martino e consorti supplicano Eriberto,
abate di S. Stefano, affinché loro conceda, in livello, i beni, già appartenenti a S. Siro:
« Peto defensoribus sacrosancte Ianuensis Eclesie ubi preest Domnus Eribertus abba monasterii sancti Stephani sito foris set prope
civitate Ianua uti nobis martini una cum filiis meis masculinis... titulo condicione locare iubeatis nobis petimus rebus coltis iuris sancti
syri predicto monasterio sancti stephani concesa est libellum mire... et pensione scribendi que... in loco et fundo Porciana omnia quecumque
nobis qui supra Martinus et Genoardus tenemus da parte sancti stephani... et ad predictum monasterium dirictum rendemus et genoardus in ipso
loco Porciana trasit de agro et colto omnia in integrum spondimus in dei nomine ecc. » (20)
Dunque le possessioni che S. Siro, ossia il vescovato di Genova, aveva nel fondo Porciano, distinte da quelle di Adelaide di Susa,
prima della donazione di costei, erano già state concesse al monastero di S. Stefano, come meglio spiega il Belgrano (21),
il quale dà, al riguardo, preziosi e minuti ragguagli, dimostrando come queste res iuris sancti syri, sono precisamente
quelle, che i sovraricordati coloni chiesero, in locazione ed ottennero dal vescovo Teodolfo, il quale le donò a S. Stefano, come
fecero i suoi successori Giovanni II e Landolfo.
Senonché, la donazione di Adelaide, per quanto riguarda i confini in essa indicati, esige ancora qualche parola di commento.
Uno di essi è il fossato di Pompeiana e questo è noto e certo, l'altro, è la terra Sancti Syri et est dicti monesterii. L'avvocato Fossati,
con sottile artifizio, suppone che il primo sia il confine occidentale, dei beni donati, e la terra di S. Siro quello orientale, cosicché
questa terra sarebbe situata a levante del fossato di S. Caterina, verso l'attuale S. Stefano. E si capisce ben facilmente la causa di tale
artifizio. La donazione di Adelaide, per quanto ha tratto ai confini, è, per Taggia, veramente disastrosa.
Noi diciamo che il secondo confine, cioè la terra di S. Siro, era ad occidente del fossato di Pompeiana, ossia presso la località, che,
ancor oggidì, è detta S. Siro, allora assai più vicina al fiume Taggia, e tale terra era il cominciamento dei possedimenti, che colà aveva
la chiesa di Genova, dati in livello ai coloni di cui sopra abbiamo parlato, e poi, concessi all'abbazia di S. Stefano. Di fronte al fatto
che, ivi era (e vi è ancor oggidì) la località, detta di S. Siro, voler cercare tale terra in altra parte, verso S. Stefano, ove mai esistette
un luogo detto S. Siro, è tale enorme sforzo che non può essere uguagliato, se non dalla enormità delle pretese di Taggia.
Adunque i beni, le grangie e le possessioni, situate presso S. Siro, erano dei benedettini genovesi, ad essi apparteneva il monastero o,
per meglio dire, il piccolo ospizio ivi costrutto, presso le grangie, di cui si vedono ancora le rovine, come lo dimostrano la logica, i fatti,
la toponomastica, i documenti e come ritengono il Casalis (22), il Semeria
(23) ed altri autori.
Ma la memoria, in difesa di Taggia, dell'avvocato Fossati, mette innanzi l'abbazia di Pedona (S. Dalmazzo) e, non potendo negare che
quelle res cultae iuris sancti syri, appartenessero alla chiesa genovese, si fa a sostenere che i vescovi di Genova abbiano donato quei beni,
all'abbazia di Pedona. Si è visto ohe ciò non è vero, abbiamo esaminati i documenti, da cui risulta che, invece, furono donati alla chiesa
di S. Stefano, ora dimostreremo l'incongruenza di tale gratuita asserzione. Anzitutto, la parte contraria dovrebbe indicare i documenti,
che comprovano tale donazione, ma documenti non se ne possono presentare, perché non ne esistono.
Secondo il fossati, tali donazioni sarebbero state, persino, anteriori alle scorrerie e devastazioni dei Saraceni, ma il vescovo Teodolfo,
nei ricordati documenti, mentre lamenta i gravi danni, dice, in modo chiaro, che le res sancti syri sono della chiesa di Genova e tace,
affatto, dei benedettini di S. Dalmazzo. « Notus esse volumus qualiter temporum vario succedente cursu a paganis saraceni res nostre
ecclesie vastate et depopulate et sine habitatore relicte sunt ecclesie ». In secondo luogo, è da ricordare quanto già esponemmo, che il
monastero benedettino di S. Stefano fu opera del vescovo genovese Teodolfo, il quale lo volle soggetto alla chiesa di Genova. Nella donazione,
che la beata Serra, nel giugno dell'anno 969, fece al monastero suddetto, si legge che esso è de subtus regimine et potestate episcopio
eiusdem sancte ianuensis ecclesie (24).
Nella ricordata donazione di Vitale, del fu Martino, dell'anno 1069, è detto che esso fa donazione, al monastero di S. Stefano, di Genova,
qui est de sub regimine genuense ecclesia, di certi beni iuris sancii syri.
Finalmente, gli atti, dei quali terremo discorso fra poco, stipulati fra l'abate di S. Stefano e Lamba Doria, dovettero riportare
l'approvazione dell'arcivescovo di Genova (25). È, adunque, presumibile che i vescovi
genovesi preferissero un monastero, che era soggetto
alla loro chiesa e di loro fondazione, ad uuo lontano e, ad essi, allora, molto probabilmente ignoto, sottoposto, come diremo, ad altro
vescovo, ossia alla chiesa di Asti. Ma ciò non basta; conviene all'assunto nostro, confondere del tutto l'asserzione avversaria. È neccessaria
una breve digressione, sull'abbazia di S. Dalmazzo. Nei Monumenta Historiae Patrioe e, più precisamente, nel volume III scriptorum, esiste
una cronaca dell'abbazia di Pedona, con vari documenti, ad essa relativi. Oggidì, è certo che tutto ciò fu una solenne impostura del
famigerato Meiranesio, il quale l'attribuì ad un antiquario, del secolo XV, tal Dalmazzo Berardenco. Come il Meiranesio inventò le famose
iscrizioni della cattedrale di Alba, dimostrate false da G. B. de Rossi (26), così inventò il
personaggio del Berardenco (27), così inventò,
o chi per esso, il diploma di Audace, vescovo di Asti, del 5 agosto 935, col quale permetteva, ai monaci di Pedona, di riedificare il monastero
e di introdurvi la regola di S. Benedetto, diploma riconosciuto falso dal chiarissimo professore Cipolla (28),
così pure falsificò i discorsi
di S. Massimo, impostura recentemente scoperta, dal mio onorando collega, il professore padre Fedele Savio (29).
Cosicché, in mezzo a tante falsità, l'unica notizia, relativa all'abbazia di Pedona, della quale, forse, non si può dubitare è il diploma
del 20 maggio dell'anno 966, col quale, l'imperatore Ottone I, conferma alla chiesa di Asti, le donazioni dei suoi antecessori, ed, inoltre, le
cede... abatiolas de Agiano... et Pedonensem... cum omnibus rebus ad predictas abbatiolas integerrime pertinentibus (30).
Era, quindi, in quel tempo, il monastero di Pedona, una piccola abbazia, soggetta alla chiesa di Asti e nessuna relazione avea coi vescovi genovesi.
La chiesa di S. Maria di Caneto, di Taggia, pervenne verso il secolo XIII, ai monaci di Pedona, se pur non fu donata da Innocenzo IV,
nell'anno 1246. Certo è che, all'infuori di essa, nessun'altra chiesa, possedevano i religiosi di Pedona, nella diocesi di Albenga (31),
e, ciò che più interessa, nessuna chiesa e possessione aveano nella diocesi genovese.
Chiusa la digressione, ritorniamo al nostro ragionamento.
Bibliografia:
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